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Tito Lucrezio Caro
(✶94 a.C   †50 a.C.)

Tito Lucrezio Caro (in latino Titus Lucretius Carus; Pompei o Ercolano, 94 a.C. – Roma, 15 ottobre 50 a.C.) è stato un poeta e filosofo romano, seguace dell'epicureismo.

Fonti biografiche

Della vita di Lucrezio ci è ignoto quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana né sembra esistere negli scritti dei contemporanei in cui non viene mai citato, eccezion fatta per la lettera di Cicerone ad Quintum fratrem II, contenuta nella sezione Ad familiares, dove il celebre oratore accenna all'edizione, forse postuma, del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando. Però, in scrittori romani successivi egli viene spesso citato: ne parlano Seneca, Frontone, Marco Aurelio, Quintiliano, Ovidio, Vitruvio, Plinio il Vecchio, senza tuttavia fornire nuove informazioni sulla vita. Questo però dimostra che non si tratta di un personaggio inventato.

Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo Chronicon, di cinque secoli dopo, in cui ci dice che sarebbe nato circa nel 94 a.C. e morto suicida (notizia non verificata) nel 50 a.C.; tale dato non concorda tuttavia con quanto affermato da Elio Donato (IV d.C.), maestro di Gerolamo stesso, secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato nel 70 a.C.) indossò a 15 anni la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Questo dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio nacque nel 98 a.C. per poi morire nel 55 a.C., all'età di quarantaquattro anni. Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie biografiche tramandate direttamente dall'antichità.

Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere la Campania e più precisamente Pompei o Ercolano, per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città, e la condizione sociale, sebbene i tria nomina (i Lucretii avevano delle ville a Pompei) e il suo anelito "pacifista" facciano credere che potesse essere di nascita aristocratica. Neppure la sua militanza politica sembra essere ricostruibile: il desiderio di pace accennato prima non sembra affatto ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico, per altro solitamente stoico, che vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma il desiderio dell'"amico" epicureo, che vede nella pace e nel benessere di tutti la possibilità di fare accoliti e viver serenamente. È tuttavia rilevante il fatto che la sua opera "De Rerum Natura" sia dedicata a Memmio, fine letterato e appassionato di cultura greca, ma anche e soprattutto membro di spicco degli optimates.

Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera un "placida pace" per i Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine.

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Possibili ricostruzioni della vita di Lucrezio

La scarsità delle fonti sulla sua vita ha portato molti a interrogarsi persino sulla stessa esistenza del poeta, a volte considerato solo uno pseudonimo sotto il quale si celava un anonimo poeta, per alcuni un amico epicureo di Cicerone, Tito Pomponio Attico, che si suicidò in età matura perché malato, o persino lo stesso Cicerone.

Secondo lo storico Luciano Canfora, è possibile ricostruire una scarna biografia di Lucrezio.

San Girolamo, ispirandosi ad alcuni dubbi passi di Svetonio afferma che: Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo amatorio in furorem versus et per intervalla insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, sua manu se interfecit anno 44 ("nasce il poeta T. Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto alcuni libri [del poema?] negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si suicidò all'età di quarantaquattro anni"). Secondo Canfora, Lucrezio nacque in Campania nel 94 a.C. circa, a Pompei (dove aveva una villa la famiglia nobiliare di un possibile parente, Marco Lucrezio Frontone) o nella vicina Ercolano, appartenente quasi sicuramente all'antica famiglia nobile dei Lucretii (qualcuno ne fa invece un liberto della stessa famiglia). Studiò l'epicureismo proprio ad Ercolano, dove si trovava un centro della "filosofia del giardino", diretta dal filosofo greco Filodemo di Gadara, allora ospite nella villa di Lucio Calpurnio Pisone, il ricco suocero di Cesare (la cosiddetta "villa dei papiri"). Lucrezio avrebbe sofferto di sbalzi d'umore, chiamati oggi disturbo bipolare, ma non sarebbe stato pazzo, ma di questo umore alterno risentì il suo lavoro. In disaccordo con le guerre civili, avrebbe lasciato Roma prima del 54 a.C. e non sarebbe morto suicida in quell'anno, ma avrebbe viaggiato in Grecia, ad Atene, nei luoghi del maestro Epicuro, e oltre, essendo forse il suo nome conosciuto da Diogene di Enoanda (che secondo l'autore non visse nel II secolo d.C. ma nel I secolo), quindi quasi in Asia minore, nelle cui famose incisioni sotto il portico della sua casa si ricorda un certo "Caro" (nome poco diffuso), romano, e sapiente epicureo. Non si sa se il poema era diffuso nell'oriente, quindi è possibile che Lucrezio si fosse davvero recato in Grecia. Lucrezio, spinto da una delusione d'amore, si sarebbe allontanato lasciando incompiuto il suo poema, affidato forse a Cicerone stesso (che difatti non parla effettivamente di suicidio ma afferma: "Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis" (cioè: "le poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e tuttavia di molta arte"), ma, forse, senza impazzire e morire (che fosse suicidandosi o perché assassinato), esagerazione della fonte di Girolamo o di qualche altro avversario di Lucrezio, e sarebbe stato forse volutamente confuso dallo stesso Girolamo con Lucullo, onde screditare l'epicureismo.

Il destinatario dell'opera, Gaio Memmio, caduto in disgrazia ed espulso dal Senato per condotta immorale, andò ad Atene nel 52 a.C., causando una nuova delusione a Lucrezio, che, tornato a Roma, sarebbe morto intorno o dopo il 50 a.C. La notizia di un "filtro d'amore" velenoso somministratogli da una donna di facili costumi, amante gelosa del poeta, viene riportata anche da Svetonio nei confronti di Caligola e della moglie Milonia Cesonia; in questo caso è apparsa una semplice diceria, e, data l'ispirazione svetoniana (dal perduto De poetis) del passo di Girolamo su Lucrezio, anche lì sembra essere una spiegazione semplicistica, dovuta alla poca conoscenza dei disturbi psichici che si aveva all'epoca (anche per Caligola si parlò, difatti, come per Lucrezio, di epilessia e malattie fisiche misteriose che l'avrebbero fatto impazzire improvvisamente, come, nel caso di studiosi moderni, l'avvelenamento da piombo, oltre che dei detti "filtri").

La questione del suicidio

Se Lucrezio soffrì di disagi psicologici (che lo spinsero appunto a cercare sollievo nella filosofia), non fu a causa di un veleno, e se suicidio ci fu (il che potrebbe spiegare l'abbandono improvviso del poema), potrebbe essere stato per motivi politici, come accadrà a molti (soprattutto stoici, come Catone Uticense, più tardi), dovuto alla rovina del suo protettore Memmio e della sua cerchia culturale.

Virgilio, che lo rispettava anche se era passato alle teorie pitagoriche, lasciando l'epicureismo della sua gioventù, parla di lui nelle Georgiche e nelle Bucoliche, definendolo "felix" (ossia "prediletto dalla dea Fortuna") e non "folle". Secondo Guido Della Valle, pedagogista, medico e scrittore, la V ecloga, che parla della morte di un personaggio chiamato Dafni (a volte identificato con Cesare, a volte con Flacco, il fratello di Virgilio), potrebbe riferirsi invece alla morte dello stesso Lucrezio, definita "immatura e innaturale", cioè avvenuta per cause traumatiche in giovane età. Il movente politico e morale del gesto potrebbe essere la causa del silenzio attorno ad esso e del fiorire di aneddoti per giustificarlo, dato che non si poteva cancellare la grandezza poetica di Lucrezio, con una sorta di damnatio memoriae di solito riservata ai nemici politici. Essi erano spesso vittime delle liste di proscrizione dei vincitori, come quelle di Marco Antonio che colpiranno Cicerone, e molti si toglievano la vita, in quanto morte onorevole per i costumi romani; Virgilio e Orazio, estimatori di Lucrezio, facevano parte della corte di Augusto, e dovevano quindi allinearsi alla linea culturale dettata dall'imperatore, assertore dell'antica moralità e diffusore della leggenda di Cesare (per cui venivano cancellate le espressioni scomode di dissenso), e dal suo amico Mecenate, in cui l'epicureismo, se non sfumato come in Orazio appunto - così come ogni opera che non fosse celebrativa del princeps e della grandezza di Roma - non trovava spazio, per cui Lucrezio verrà ricordato solo come grande poeta, tralasciandone l'aspetto filosofico.

Secondo Della Valle, quindi, Lucrezio si sarebbe tolto la vita come gesto di protesta verso la classe politica in ascesa, o perché condannato a morte da essa.

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La figura di Lucrezio


La scomodità di Lucrezio

Lucrezio, per il periodo in cui è vissuto, è stato un personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era profondamente intriso corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina. In un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus epicureo significava sottrarsi ai negotia politici e uscire di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere.

Le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la classe dirigente romana in quanto più conformi alla tradizione guerriera dell'Urbe. L'epicurismo era invece presente anche attraverso il citato Filodemo e altri in Campania, dove Virgilio avrebbe approfondito la sua conoscenza dell'epicureismo. Orazio non lo nomina, ma è evidente che lo conosce, e ideologicamente gli è più vicino di altri.

La presunta pazzia

La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue espressioni, che accompagnano il poema. Alcuni teologi cristiani come San Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda alle forze del male. Appoggiandosi alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico.

In realtà l'ipotizzata pazzia di Lucrezio potrebbe essere un tentativo di mistificazione per screditare il poeta, così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni.

Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di San Girolamo si fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione Luc., impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione Luc. potrebbe così aver permesso lo scambio dei due personaggi.

Lucrezio e la società romana

A causa dell'impossibilità di ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il progetto letterario che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo dalla sua opera poetica, considerata tra le più vigorose d'ogni età. Bisogna ora individuare le motivazioni che spinsero Lucrezio a scrivere il De rerum natura, che fondamentalmente sono due: la prima è una ragione etico-filosofica, in quanto il poeta, affascinato dalla filosofia epicurea, desiderava invitare il lettore alla pratica di tale filosofia, incitandolo a liberarsi dall'angoscia della morte e degli dèi. La seconda motivazione invece è di carattere storico. Lucrezio era conscio che la situazione politica a Roma peggiorasse di giorno in giorno: Roma era quadro ormai di continui scontri bellici e conseguenti dissidi; giustappunto egli, con un evidente positivismo, voleva incoraggiare il cittadino-lettore romano a non perdere la fiducia verso un successivo miglioramento della situazione.

Lucrezio si proponeva di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo all'epicureismo che aveva declinato in favore dello stoicismo. La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e più propriamente romana: non c'era un dovere romano di civilizzare "l'orbe terrifero e de le acque", come dirà Virgilio ad un Enea, facendolo dire alla Sibilla Cumana; non c'è un intelletto seminale in ognuno di noi che è parte integrante del Divino e che farà ritornare tutto attraverso i tempi; ma un mondo che non è unico nell'universo, che peraltro è infinito, anzi esso stesso è uno dei possibili mondi tutti esistenti o che esisteranno. Non c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi, ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum regni, deve essere non distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile come utile ma falsa. Egli afferma fin dal 1°libro del De rerum natura:

«Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai terribili detti Dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori!Giustamente, poiché se gli uomini vedessero la sicura fine dei loro travagli, in qualche modo potrebbero contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati... Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell'animo occorre che non i raggi del sole né i dardi lucenti del giorno disperdano, bensì la realtà naturale e la scienza... E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla, allora già più agevolmente di qui potremo scoprire l'oggetto delle nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia senza opera alcuna di dèi.»

Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli dèi latini sostenendo che non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta, giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli dei, seppur esistenti e anche loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si curano del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è la Divina Voluptas, Venere: il piacere, la vita stessa intesa come animazione regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra. Proprio per questo, egli elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo si sente profondamente affine ai poeti delle origini, il cui luogo principe è in Empedocle (secondo infatti per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità affatto umana, universale e per tutti, che attecchirà ben presto per la salvezza di Roma. Epicuro è comunque, per Lucrezio, il più grande uomo mai esistito, come risulta dai tre inni a lui dedicati (chiamati anche "trionfi" o "elogi"):

«E dunque trionfò la vivida forza del suo animo. E si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore e la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo.»
Il destinatario e i destinatari

Il dedicatario dell'opera è il Claris Memmiadis Propago, ovvero il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si fa indicare con Gaio Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si prefigge di conquistare è proprio il giovane aperto e pronto ad ogni esperienza che un giorno prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con così tanto fervore da Lucrezio. Ma, almeno con Memmio, egli fallì: cresciutosi divenne un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e fu allontanato dal Senato Probi Causa, ovvero per immoralità. Dopo di ciò si riparò in Grecia, dove scrisse poesie licenziose, e dove ce lo cita anche Cicerone (nelle Ad Familiares), pronto a voler distruggere la casa e il giardino dove proprio Epicuro risiedette (per costruirsi un palazzo), suscitando lo sdegno degli epicurei che fecero istanza a Cicerone di intervenire per impedirglielo, cosa in cui Cicerone fallirà.

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Lo stile

In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua), lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia. Discendendo più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche altri problemi cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza filosofica in latino, che ancora non aveva termini confacenti. Finché poté, egli evitò la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος) e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari dandogli altra accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi. Ed è proprio grazie all'arcaismo che Lucrezio riesce a rendere possibile tutto questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo "munificenza" ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e moderni) delle figure di suono quali allitterazioni, consonanze, assonanze e omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece attraverso un poema che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della filosofia, parla per squarci imaginifici.

Opera letteraria

Il De rerum natura

Si tratta di un poema didascalico, di natura scientifica-filosofica, in esametri suddiviso in sei libri (raccolti in diadi) che illustrano fenomeni di dimensioni progressivamente più ampie: dagli atomi (I-II) si passa al mondo umano (III-IV) per arrivare ai fenomeni cosmici (V-VI). Riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως di Parmenide (anche un'opera di Epicuro aveva il medesimo titolo). Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade contiene un inno ad Epicuro, mentre il secondo libro inizia con un inno alla scienza e il terzo libro con un inno alla scienza e con l'esposizione dell'estetica di Lucrezio.

Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.

Filosofia di Lucrezio

Ontologia

Sul piano teorico l'opera di Lucrezio si caratterizza come una puntualizzazione di quella epicurea con alcune esplicazioni che nel suo referente greco non erano abbastanza chiare. Il concetto di parenklisis che Lucrezio tradurrà con clinamen mancava di definizione chiara. Nella Lettera ad Erodoto Epicuro poneva infatti la parenklisis al § 43, ma poi al § 61 parlava piuttosto di una deviazione per urto.

Il celebre passaggio del II libro del De rerum dice:

«Perciò è sempre più necessario che i corpi deviino un poco; ma non più del minimo, affinché non ci sembri di poter immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce. Infatti è evidente, a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se stessi non possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è facile constatare. Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto alcuna deviazione dalla linea retta del loro percorso? Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo, se i germi primordiali con l'inclinarsi non determinano un qualche inizio di movimento che infranga le leggi del fato così che da tempo infinito causa non sussegua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida.»

Lucrezio precisa poi ulteriormente le modalità del clinamen aggiungendo:

«Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche inizio di movimento che infranga le leggi del fato così che da tempo infinito causa non sussegua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, in virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida, e deviamo il nostro percorso non in un momento esatto, né in un punto preciso dello spazio, ma quando lo decide la mente? Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio volere suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra.»

Per quanto riguarda la sfera del vivente Lucrezio la collega direttamente agli atomi nel loro processo creativo, scrivendo:

«Così è difficile rescindere da tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto si dissolva. Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli organi.»
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Gnoseologia

Secondo Lucrezio, che riprende in maniera radicale la tesi già di Epicuro, la religione è la causa dei mali dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che la religione offuschi la ragione impedendo all'uomo di realizzarsi degnamente e, soprattutto, di poter accedere alla felicità. Il poema ha come argomenti principali la lacerante antinomia fra ratio e religio, l'epicureismo e il progresso. La ratio è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo, quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza, che lo stesso Lucrezio denomina spesso con il termine "superstitio". Indica l'insieme di credenze e dunque di comportamenti umani "superstiziosi" nei confronti degli dei e della loro potenza. Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa e pericolosa.

Lucrezio afferma che sono evidenti le nefaste conseguenze della religione e adduce come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà, come nell'Evemerismo. La religione è perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini.

Lucrezio riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e la "parenklisis" (che egli ribattezza clinamen), la liberazione dalla paura della morte, la spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente fisici e biologici. Egli opera un completamento di essa in senso naturalistico ed esistenzialistico, introducendo un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, probabilmente da attribuirsi a una personalità malinconica.

Da un punto di vista ontologico, secondo Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi. Tale concezione atea, materialista, antiprovvidenzialista e storica della natura sarà ereditata e rielaborata da molti pensatori materialisti dell'età moderna, in particolare gli illuministi Diderot, d'Holbach e La Mettrie, anch'essi atei dichiarati e a loro volta divulgatori dell'ateismo; Lucrezio sarà inoltre seguito da Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Torquato Tasso (per quest'ultimo non ideologicamente ma stilisticamente).

L'uomo e il progresso

Il De rerum natura tradotto da Mario Rapisardi

Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura.

Per Lucrezio, però, il progresso non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione morale, lo condanna duramente.

Anima e Animus

Lucrezio introduce nel III libro del De rerum una chiarificazione che nel mondo latino era stata trascurata generando non poche confusioni, circa il concetto di animus in rapporto a quello di anima. Egli scrive:

«Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza stessa del corpo, che abbandona i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale sia la natura dell'animo e dell'anima - quasi una parte dell'uomo -, rigetta il nome di armonia, recato ai musicisti già dall'alto Elicona, o che essi hanno forse tratto d'altrove e trasferito a una cosa che prima non aveva un suo nome. Tu ascolta le mie parole. Ora affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti tra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente e che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola prende conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l’anima e il corpo.»

Lucrezio riprende il concetto ellenico di anima come "soffio vitale che vivifica ed anima il corpo, ciò che i greci chiamavano psyché. Questo soffio pervade tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo “con l'ultimo respiro". L'"animus" invece è identificabile col "noùs" ellenico, traducibile in latino con mens. Dunque animus e mens paiono essere o la stessa cosa o due elementi coniugati dell'unità mentale. L'indicazione della “zona centrale del petto” come sede fa pensare al concetto di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per indicare la sensibilità umana, centro dell'emozione e del sentimento. Parrebbe allora che l'animus sia insieme e conoscenza e emozione, mentre l'anima è soffio vitale.

L'angoscia esistenziale

Il De rerum natura è ricchissimo di elementi tipici dell'esistenzialismo moderno, riscontrabile specialmente in Giacomo Leopardi, che dell'opera di Lucrezio era un profondo conoscitore, anche se in realtà non è noto il lasso di tempo in cui Leopardi lesse Lucrezio. Questi elementi di angoscia hanno indotto alcuni studiosi a sottolineare il pessimismo di fondo che si opporrebbe alla volontà di rinnovare il mondo a partire dalla filosofia epicurea; in altre parole, in Lucrezio ci sarebbero due spinte contrapposte; l'una dominata dalla razionalità e fiduciosa nel riscatto dell'uomo, l'altra ossessionata dalla fragilità intrinseca degli esseri viventi e dal loro destino di dolore e morte. Altri studiosi, però ritengono che l'insistenza di Lucrezio sugli aspetti dolorosi della condizione umana non sia altro che una strategia di propaganda, per fare emergere più fortemente la funzione salvifica della ratio epicurea.

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Opere


  • Lucrezio, La natura delle cose, a cura G.B.Conte-L.Canali-I.Dionigi, Milano, Rizzoli 2000
  • (LA) Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, Patavii, excudebat Josephus Cominus, 1751. URL consultato il 10 marzo 2015.

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  • Stephen Greenblatt, Il manoscritto. Come la riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea, tradotto da Roberta Zuppet, Milano, Rizzoli, 2012, ISBN978-88-17-05909-1.

Letteratura


  • Luca Canali, Nei pleniluni sereni. Autobiografia immaginaria di Tito Lucrezio Caro, Milano, Longanesi, 1995, ISBN88-304-1287-2.
  • Alieto Pieri, Non parlerò degli dèi. Il romanzo di Lucrezio, introduzione di Franco Cardini, Firenze, Le Lettere, 2003, ISBN88-7166-703-4.

Fonte:Wikipedia, l'enciclopedia libera

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