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Livio Andronico
(✶280 a.C.   †200 a.C.)

Livio Andronìco (in latino: Livius Andronīcus; Taranto, 280 a.C. circa – 200 a.C. circa) è stato un poeta, drammaturgo e attore teatrale romano. Nelle fonti antiche è con frequenza indicato semplicemente con il nomen Livio, che trasse, una volta divenuto liberto, dalla gens cui era entrato a far parte giunto a Roma; mantenne sempre, assumendolo come cognomen, il suo nome greco di Andronìco; le fonti antiche attestano, inoltre, il nome di Lucio Livio Andronìco.

Di nascita e cultura greca, egli fece rappresentare a Roma nel 240 a.C. un dramma teatrale che è tradizionalmente considerato la prima opera letteraria scritta in lingua latina. Compose in seguito numerose altre opere, probabilmente traducendole da Eschilo, Sofocle ed Euripide. Con l'intento di avvicinare i giovani romani allo studio della letteratura, tradusse in versi saturni l'Odissea di Omero.

Gli scarsi frammenti rimasti della sua opera permettono di rilevarne l'influenza dalla coeva letteratura ellenistica alessandrina, e una particolare predilezione per gli effetti di pathos e i preziosismi stilistici, successivamente codificati nella lingua letteraria latina. Anche se la sua Odusia rimase a lungo in uso come testo scolastico, la sua opera fu considerata in età classica come eccessivamente primitiva e di scarso valore, tanto da essere generalmente disprezzata.

Andronìco nacque, nella prima metà del III secolo a.C., in Magna Grecia, ma sulla sua infanzia e giovinezza non si ha alcuna informazione precisa e attendibile. Si ritiene che sia nato esattamente a Taranto, fiorente colonia greca, attorno al 280 a.C., probabilmente nel 284 a.C.; secondo la tradizione, venne poi condotto a Roma come schiavo quando la sua città natale fu conquistata, intorno al 275-270 a.C., probabilmente nel 272 a.C. Il racconto tradizionale risulta tuttavia piuttosto improbabile: Andronìco sarebbe stato deportato a Roma ancora fanciullo, all'età di otto anni circa, e non avrebbe avuto la possibilità di acquisire quelle competenze letterarie che gli consentirono in seguito di guadagnarsi in Roma un ruolo culturale di elevato prestigio. L'unica fonte a suggerire il rapporto di Andronìco con Taranto era un'opera del tragediografo latino Lucio Accio, nato nel 170 a.C. e attivo per tutto il II secolo a.C. e nei primi anni del I: egli asseriva, erroneamente, che Andronìco fosse stato portato a Roma quando i Romani riconquistarono Taranto, che si era ribellata al loro dominio, durante la seconda guerra punica, nel 209 a.C. Il racconto, seppur errato, di Accio è confermato dall'opera di san Girolamo, tarda e poco attendibile, e dai versi del poeta latino Porcio Licino:

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«Punico bello secundo Musa pinnato gradu
intulit se bellicosam in Romuli gentem feram.»
«Durante la seconda guerra punica, la Musa, con incedere alato,
si introdusse tra la bellicosa e rozza stirpe di Romolo.»
(Frammento 1 Courtney)

Com'era consuetudine per coloro che venivano catturati in guerra, Andronìco divenne schiavo di una delle più importanti famiglie romane, la gens Livia, ricadendo, secondo un'altra tradizione forse errata riportata da san Girolamo, sotto l'autorità di pater familias dell'autorevole Marco Livio Salinatore. Dopo essere divenuto liberto, probabilmente per i suoi meriti di precettore, mantenne il suo nome greco come cognomen e assunse il nomen del suo ex padrone, Livio. Conoscitore del greco e della letteratura greca, che aveva appreso in patria, egli volle introdurre il patrimonio culturale dell'Ellade a Roma: effettuò infatti delle vere e proprie trascrizioni di opere greche in lingua latina, che aveva appreso dopo l'arrivo nella stessa Roma, e svolse per anni, come più tardi avrebbe fatto Quinto Ennio, l'attività di grammaticus, impartendo lezioni di latino e greco ai giovani delle nobili gentes patrizie. Gli appartenenti alle classi più elevate iniziavano infatti a comprendere i numerosi e considerevoli vantaggi che la conoscenza del greco avrebbe portato a Roma, e dunque favorivano l'attività nell'Urbe di maestri di lingua e cultura greca.

Nel 240 a.C. ad Andronìco fu affidato, probabilmente dagli edili curuli, l'incarico di comporre un'opera teatrale che fu rappresentata in occasione dei ludi scaenici che si tennero in occasione della vittoria di Roma su Cartagine nella prima guerra punica; risulta probabile che si sia trattato di un'opera tradotta da un originale greco, ma non è possibile determinare se tragedia o commedia. In seguito, Andronìco continuò a riscuotere un notevole successo, scrivendo drammi teatrali dei quali, come divenne grazie al suo stesso esempio consuetudine per gli autori contemporanei, fu anche attore:

«Liuius, [...] suorum carminum actor, dicitur, cum saepius reuocatus uocem obtudisset, uenia petita puerum ad canendum ante tibicinem cum statuisset, canticum egisse aliquanto magis uigente motu quia nihil uocis usus impediebat.»
«Livio Andronìco fu attore dei propri drammi; si dice che una volta, quando, richiamato più volte in scena, era rimasto senza voce, chiesto il permesso, stabilì di far cantare davanti al flautista in sua vece un ragazzo, mentre lui eseguì la monodia con una gestualità notevolmente più espressiva, poiché non era impedito dall'uso della voce.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VII, 2, 8-9.)

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Nel 207 a.C., durante la seconda guerra punica, per allontanare la minaccia del cartaginese Asdrubale che marciava verso il sud d'Italia in soccorso del fratello Annibale e guadagnare l'aiuto divino con cui sconfiggere i nemici, i pontifices e il senato romano incaricarono Andronìco, che aveva acquisito una grande fama, di scrivere un carmen propiziatorio per Giunone, l'inno a Iuno Regina. Alla luce dell'occasione per cui il testo fu composto, è probabile che si trattasse di una "preghiera a carattere formulare e rituale, di significato prettamente religioso, nella forma di un partenio greco"; del testo non rimane alcun frammento. Nel descrivere la cerimonia d'espiazione in onore di Giunone, lo storico Tito Livio si sofferma a parlare dell'Inno:

«Ab aede Apollinis boues feminae albae duae porta Carmentali in urbem ductae; post eas duo signa cupressea Iunonis reginae portabantur; tum septem et uiginti uirgines, longam indutae uestem, carmen in Iunonem reginam canentes ibant, illa tempestate forsitan laudabile rudibus ingeniis, nunc abhorrens et inconditum si referatur; uirginum ordinem sequebantur decemuiri coronati laurea praetextatique. A porta Iugario uico in forum uenere; in foro pompa constitit et per manus reste data uirgines sonum uocis pulsu pedum modulantes incesserunt. Inde uico Tusco Uelabroque per bouarium forum in cliuum Publicium atque aedem Iunonis reginae perrectum. Ibi duae hostiae ab decemuiris immolatae et simulacra cupressea in aedem inlata.»
«Dal tempio di Apollo due mucche bianche furono condotte in città attraverso la porta Carmentale; dietro di esse venivano portate due statue di Giunone Regina, di legno di cipresso; poi le ventisette vergini indossanti una lunga veste, procedevano cantando l'inno a Giunone Regina, certamente in quel tempo bello per intellettuali poco affinati, adesso incredibile e rozzo se fosse qui riprodotto; i decemviri coronati d'alloro e con indosso la pretesta seguivano la processione delle vergini. Dalla porta arrivarono nel Foro per il vico Iugario. Nel Foro il corteo si fermò e le fanciulle, tenendo per le mani una corda, sfilarono modulando il ritmo del canto col battito dei piedi. Poi si continuò per il vico Tusco e il Velabro, attraverso il Foro Boario fino alla salita Publicia e al tempio di Giunone Regina. Ivi le due vittime furono sacrificate dai decemviri e le statue in legno di cipresso furono trasportate nel tempio.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXVII, 37, 11-15; trad. di L. Fiore, UTET, Torino 1981.)

È tuttavia significativo notare come l'inno fu scritto dietro commissione statale, e non fu dunque una spontanea espressione dell'arte del poeta: la realizzazione della preghiera fu affidata a Livio per via della fama di cui egli godeva, ma anche per i rapporti che lo legavano al console Marco Livio Salinatore, che era incaricato di affrontare l'esercito cartaginese di Asdrubale. L'esercito romano si scontrò dunque con quello nemico in una sanguinosa battaglia presso il fiume Metauro, dove i legionari romani ottennero la vittoria infliggendo ingenti perdite ai nemici e distruggendone l'intero corpo di spedizione.

Dopo la vittoria di Livio Salinatore, ad Andronìco furono concessi dallo stato riconoscente grandissimi onori, come quello di poter abitare presso il tempio di Minerva sull'Aventino, a testimonianza dello stretto legame che intercorreva tra la religione e l'attività poetica. Nella stessa occasione fu inoltre istituito, con sede presso il tempio stesso, il collegium scribarum histrionumque, un'associazione di tipo corporativo che riuniva gli attori e gli autori delle rappresentazioni drammatiche allora presenti in Roma. Livio Andronìco morì in data sconosciuta, probabilmente nel 204 a.C., ma certamente prima del 200 a.C., quando la composizione di un nuovo inno sacro fu affidata a un altro autore; negli ultimi anni della sua vita si dedicò all'opera di traduzione integrale dell'Odissea di Omero, intenzionato a creare un libro di testo su cui si potessero formare i giovani romani delle generazioni successive.

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Opere


Opere teatrali


Mosaico romano del I secolo a.C. raffigurante le maschere tragica e comica (Roma, Musei capitolini).

A metà del III secolo a.C. nella penisola italica erano già sviluppate, grazie tanto all'influenza greca quanto alle tradizioni locali, più forme di rappresentazioni drammatiche:

  • in Etruria e a Roma si era sviluppato il fescennino, che talvolta veniva accompagnato da spettacoli di musica e danza o da giochi sportivi;
  • nel sud della Campania era diffusa l'atellana;
  • nelle colonie doriche dell'Italia meridionale e della Sicilia venivano rappresentate, infine, le farse fliaciche. A Taranto, in particolare, aveva operato il poeta Rintone, che aveva dato forma letteraria alla parodia mitologica: considerevole era infatti l'attenzione dei tarantini per l'arte drammatica che giunse a Roma, nella sua forma letteraria, proprio attraverso un autore di Taranto.

La produzione teatrale di Livio Andronìco spostò l'attenzione dei Romani dalle opere comiche pre-letterarie al genere tragico: Andronìco, con il quale si suole far iniziare l'età arcaica della letteratura latina, fu il primo autore, seppur di origine greca, a comporre un dramma teatrale in latino, rappresentato nel 240 a.C. ai ludi scaenici organizzati per la vittoria romana nella prima guerra punica. Di tale opera non si conserva alcun frammento, e non è neppure possibile determinare se si trattasse di una commedia o di una tragedia.

L'arrivo nell'Urbe del dramma letterario causò l'insorgere di alcune necessità pratiche fino ad allora inesistenti, come quelle di accordarsi con i magistrati incaricati di organizzare i ludi, che spesso commissionavano le opere teatrali agli autori, la costruzione di una struttura in cui fosse possibile allestire il dramma, la costituzione di compagnie di attori e musicisti. Rispetto ai canoni del teatro greco, Andronìco privilegiò l'elemento musicale, che era particolarmente importante nel teatro preletterario italico, ma limitò notevolmente il ruolo del coro, che svolgeva in Grecia una fondamentale funzione paideutica, relegandolo ad alcuni brevi interventi. Fu dunque necessario sviluppare i cantica, canti di movimento lirico in metri di derivazione greca, cui si alternavano i diverbia, versi recitati senz'alcun accompagnamento musicale; a essi si affiancava il "recitativo", in cui gli attori conferivano una particolare accentazione musicale ai versi con l'accompagnamento del flauto.

Andronìco decise di utilizzare per le opere drammatiche metri di derivazione greca, e dunque a carattere quantitativo; i metri che egli impiegò, tuttavia, subirono nel corso della storia profonde modificazioni, allontanandosi gradualmente dalle leggi quantitative della metrica greca. Per le parti dialogate preferì il senario giambico, derivato dal trimetro giambico greco, mentre per i cantica si hanno numerose attestazioni dell'uso del settenario trocaico, che era discretamente diffuso nella tragedia e nella commedia nuova greche. Il verso ebbe però maggiore fortuna in Roma, dove fu ampiamente adoperato da tutti i drammaturghi e divenne patrimonio della cultura popolare, tanto da essere ancora utilizzato dai legionari di Cesare per i carmina recitati durante i trionfi del 45 a.C.; risulta, infine, l'occorrenza di versi cretici nell'Equos Troianus.

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Sono giunti fino a noi i titoli e pochi frammenti di otto fabulae cothurnatae, ovvero tragedie di argomento greco, ma è tuttavia probabile che ne esistessero delle altre di cui non rimane traccia. Esse erano costruite mediante l'imitatio (traduzione) o l'aemulatio (rielaborazione artistica) di originali greci, con particolare riferimento alle opere dei grandi tragici, Eschilo, Sofocle ed Euripide. Cinque delle otto tragedie erano di argomento attinente al ciclo Troiano, che narrava le gesta degli eroi impegnati nella guerra di Troia:

  • Achilles (Achille) - forse era basato sugli eventi che a Sciro videro coinvolto l'eroe greco.
  • Aiax mastigophorus (Aiace fustigatore o Aiace portatore di frusta) - tratto dall'Aiace di Sofocle, narrava la storia dell'assegnazione delle armi di Achille tra gli Achei, della follia e del conseguente suicidio di Aiace.
  • Equos Troianus (Il cavallo di Troia) - basato sul racconto del cavallo di legno e della caduta di Troia.
  • Aegisthus (Egisto) - ispirato all'argomento dell'Orestea di Eschilo ma probabilmente tradotto da un'altra opera non pervenuta, narrava la storia del rapporto adultero tra Egisto e Clitennestra, legittima moglie di Agamennone.
  • Hermiona (Ermione) - forse tratta da Sofocle, era basata sulla disputa mortale tra Oreste e Neottolemo per la mano della giovane Ermione.

Le restanti tragedie, caratterizzate da un gusto quasi romanzesco per l'elemento melodrammatico e da una particolare attenzione per i particolari avventurosi, erano probabilmente ispirate ad alcuni temi ricorrenti nella produzione tragica greca postclassica, e sono riconducibili ad alcuni dei principali racconti mitici della tradizione greca:

  • Danae - basata sulla leggenda che vede la figlia del re di Argo venire fecondata da Giove e generare Perseo.
  • Andromeda - basata sul salvataggio della ragazza omonima da un mostro marino, operato da Perseo.
  • Tereus (Tereo) - basata sulla vicenda di Tereo, Filomela e Procne, che, macchiatisi di terribili crimini, vengono trasformati per volere divino in uccelli.

È possibile che fosse opera di Andronìco anche una Ino, di cui non si ha tuttavia alcuna notizia.

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Andronìco fu, probabilmente per la sua scarsa conoscenza del latino colloquiale, poco interessato al genere comico, tanto da non risultare mai tra gli autori più rappresentativi di esso. Le commedie che scrisse, riconducibili al genere della fabula palliata, risalgono forse alla prima fase della sua attività, quando ancora era il solo in Roma a rielaborare copioni attici. Tutte le opere sono riconducibili al filone della commedia Nuova, sviluppatasi in età ellenistica e basata sulla rappresentazione di situazioni convenzionali ma realistiche di vita quotidiana; essa risultava facilmente importabile a Roma, a differenza della commedia antica di tradizione aristofanea, basata sulla satira politica, vietata in Roma, e sui continui riferimenti a fatti d'attualità. Delle opere comiche di Andronìco rimangono sei frammenti e tre titoli, di cui due risultano incerti:

  • Gladiolus (Lo spadino) - basato sulle vicende di un soldato fanfarone e probabilmente ambientato nei tempi immediatamente successivi alla morte di Alessandro Magno.
  • Ludius (L'istrione o forse Il Lidio).
  • Verpus (Il circonciso) o Virgo (La vergine) o Vargus (L'uomo dai piedi storti).

Odusia

Le prime testimonianze letterarie della presenza del genere dell'epica in Roma risalgono agli ultimi anni del III secolo a.C., quando Andronìco tradusse nella sua Odusia l'Odissea di Omero, e Gneo Nevio, poco più tardi, compose il Bellum Poenicum. Erano tuttavia particolarmente diffuse forme di epica preletteraria, i carmina convivalia come il carmen Priami o il carmen Nelei, che celebravano la storia patria e contribuivano a creare una materia leggendaria e mitologica su cui si sarebbero sviluppate le opere epiche successive.

Andronìco, in qualità di grammaticus, intese creare un testo destinato all'uso scolastico scegliendo, quando era già divenuto un celebre autore drammatico, di tradurre l'Odissea. Omero era infatti considerato il poeta sommo, e l'epica era il genere più solenne e impegnativo cui un letterato potesse dedicarsi. La cultura ellenistica, di cui Andronìco aveva subito gli influssi a Taranto, lo portava inoltre a prediligere gli aspetti patetici e avventurosi e gli elementi fiabeschi piuttosto che le vicende belliche che contraddistinguevano l'altro poema omerico, l'Iliade; contemporaneamente, il protagonista dell'opera, Ulisse, era facilmente assimilabile a quello di Enea, leggendario capostipite della stirpe dei Romani, costretto a vagare per il Mare Mediterraneo alla ricerca di una patria; l'espansione di Roma nell'Italia del sud e in Sicilia, inoltre, rendeva particolarmente sentito il tema del viaggio per mare, tra i nuclei fondamentali dell'opera. A livello morale, infine, l'Odissea rispecchiava i valori del mos maiorum romano, come la virtus o la fides: Ulisse, forte e coraggioso come ogni eroe omerico, era anche paziente, saggio e legato alla patria e alla famiglia al punto di rifiutare l'amore di Circe e Calipso e il dono dell'immortalità che quest'ultima gli aveva offerto; inoltre, Penelope, la moglie di Ulisse, estremamente riservata e fedele al marito lontano, avrebbe rappresentato un modello per tutte le matrone romane.

La traduzione dell'Odissea presentava alcune considerevoli difficoltà cui Andronìco fu costretto a far fronte: dovette infatti compiere importanti scelte lessicali, sintattiche e metriche per adattare il testo alla cultura latina e alla religione romana. L'apparato religioso romano gli imponeva di tradurre i nomi delle divinità originali e di sostituire i termini del linguaggio sacro con i corrispondenti romani; a motivazioni religiose fu dovuta anche la scelta, per l'Odusia, del verso saturnio in luogo dell'esametro greco: esso era riconducibile ad antiche pratiche religiose romane e conferiva al testo stesso un carattere solenne e sacrale. Considerevoli furono inoltre le modifiche che Andronìco apportò al testo originale in base ai canoni della letteratura ellenistica: egli infatti enfatizzò gli effetti patetici e drammatici, mantenendosi fedele alla struttura e al contenuto del testo omerico, ma rielaborandone la forma in quella che può essere definita come una "traduzione artistica".

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Dell'Odusia sono a oggi pervenuti circa quaranta frammenti. Notevole è la traduzione del primo verso dell'Odissea omerica, di cui Andronìco conservò la disposizione e la valenza dei termini, modificando il riferimento alle Muse greche con l'invocazione alle romane Camene; l'originale Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον […] ("Musa, quell'uom di multiforme ingegno / dimmi..." nella traduzione di Ippolito Pindemonte) divenne, nell'opera di Andronìco:

«Virum mihi, Camena, insece versutum.»
«Cantami, o Camena, l'eroe dalla multiforme scaltrezza.»
(Frammento 1 Traglia.)

Fortuna

Seppure di nascita e cultura greca, Andronìco avviò l'opera di creazione di una lingua letteraria latina: rispetto al greco, il latino risultava indubbiamente meno flessibile e più pesante e solenne, ma era al tempo stesso ben più incisivo, come sottolinea il frequente uso dell'allitterazione e di altre figure retoriche.

La produzione teatrale di Andronìco, tuttavia, fu presto dimenticata dai posteri, e lo stesso Andronìco non comparve mai nei canoni dei maggiori poeti comici latini. Particolarmente severi furono i giudizi che gli antichi eruditi pronunciarono sulla sua opera: Tito Livio definì "certamente in quel tempo bello per intellettuali poco affinati, adesso incredibile e rozzo se fosse qui riprodotto" l'inno a Iuno Regina; altrettanto severo fu il giudizio di Orazio:

«Non equidem insector delendave carmina Livi
esse reor, memini quae plagosum mihi parvo
Orbilium dictare; sed emendata videri
pulchraque et exactis minimum distantia miror.»
«E comunque non depreco e non voglio distrutti
i poemi di Livio che -ricordo- a me da ragazzo
Orbilio dettava a suon di botte, ma mi meraviglio
che siano creduti puri, leggiadri, praticamente perfetti»
(Epistulae II, 1, 68-71)
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Anche Cicerone rivolse severe critiche all'opera di Andronìco:

«[…] Nihil est enim simul et inventum et perfectum; nec dubitari debet quin fuerint ante Homerum poetae, quod ex eis carminibus intellegi potest, quae apud illum et in Phaeacum et in procorum epulis canuntur. quid, nostri veteres versus ubi sunt? […] sic enim sese res habet. nam et Odyssia Latina est sic [in] tamquam opus aliquod Daedali et Livianae fabulae non satis dignae quae iterum legantur.»
«Nulla può essere scoperto e portato a perfezione nello stesso tempo; e non bisogna dunque dubitare che vi siano stati poeti prima di Omero: ciò si desume da quei carmi che vengono cantati durante i banchetti dei Feaci e dei Proci. E dove sono invece i nostri antichi versi? […] Così stanno infatti le cose: l'Odissea latina è come un'opera di Dedalo [rozza e poco raffinata, ndr], e le opere drammatiche di Livio non meritano di essere lette due volte.»
(Brutus, 71.)

L'opera di Andronìco tornò a essere oggetto di interesse, seppure puramente scientifico, nel II secolo d.C., grazie allo sviluppo delle tendenze letterarie arcaizzanti: furono infatti portati a compimento studi di carattere filologico e linguistico sul testo dell'Odusia, che costituiva uno dei principali documenti della fase arcaica della letteratura latina.

Gli studiosi contemporanei tendono, invece, a riabilitare almeno in parte l'opera di Andronìco; lo storico della letteratura latina Concetto Marchesi scrisse a proposito:

«Questo rivelatore della letteratura greca al popolo di Roma, questo inauguratore del nuovo teatro romano, che alla poesia latina diede i nuovi metri drammatici, pagava duramente il suo tributo di primitivo ai gusti raffinati dei posteri, e scontava, forse ingiustamente, la onorabile colpa di aver mantenuto, a rispetto di una sacra tradizione, il saturnio nazionale in cui volse i canti di Omero e levò alla divinità il primo inno di poeta latino interprete della supplice anima di Roma.»
(Storia della letteratura latina, p. 41.)

Simile è il giudizio dello studioso del teatro latino William Beare:

«I Romani considerarono retrospettivamente Andronìco come una figura rispettabile, ma un po' incolore. La sua importanza è quella di pioniere. Trovò Roma senza letteratura e senza dramma scritto. Tracciò i binari lungo i quali la tragedia e la commedia erano destinate a svilupparsi per centocinquant'anni.»
(I Romani a teatro, p. 39; trad. di Mario De Nonno.)

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Bibliografia


Fonti primarie


  • Aulo Gellio, Notti attiche, I, XVII.
  • Cicerone, Brutus.
  • Orazio, Epistulae, II.
  • Plutarco, Vite Parallele, Pirro.
  • San Girolamo, Chronicon, 187 a.C.
  • Terenzio, Andria.
  • Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VII, XVII.

Letteratura critica


  • William Beare, I Romani a teatro, traduzione di Mario De Nonno, Bari-Roma, Laterza [1986], gennaio 2008, ISBN978-88-420-2712-6.
  • Giuseppe Broccia, Ricerche su Livio Andronìco epico, Padova, Pubblicazioni della Facoltà di lettere e filosofia. Università degli studi di Macerata, 1974.
  • Ugo Carratello, Livio Andronìco, Roma, Cadmo, 1979, ISBN978-88-7923-050-6.
  • (EN) Ivy Livingston, A Linguistic Commentary on Livius Andronicus, New York, Routledge, 2004, ISBN978-0-415-96899-7.
  • Concetto Marchesi, Storia della letteratura latina, 8ªed., Milano, Principato [1927], ottobre 1986.
  • Scevola Mariotti, Livio Andronìco e la traduzione artistica, Urbino, Pubblicazioni dell'Università di Urbino. Serie di lettere e filosofia, 1950.
  • Jean-Paul Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium, Lipsia, 1927.
  • Giancarlo Pontiggia, Maria Cristina Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, Milano, Principato, marzo 1996, ISBN978-88-416-2188-2.
  • Antonio Traglia, Poeti latini arcaici, I, Livio Andronìco, Nevio, Ennio, UTET, 1986, ISBN978-88-02-04009-7.
  • Alfonso Traina, Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronìco a Cicerone, Roma, 1974.

Fonte:Wikipedia, l'enciclopedia libera

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