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Augusto
(✶63 a.C.   †14 d.C.)

Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (in latino Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus; nelle epigrafi: C•IVLIVS•C•F•CAESAR•IIIVIR•RPC; Roma, 23 settembre 63 a.C. – Nola, 19 agosto 14 d.C.) meglio conosciuto come Ottaviano o Augusto, fu il primo imperatore romano. Il Senato gli conferì il titolo di Augustus il 16 gennaio 27 a.C., e il suo nome ufficiale fu da quel momento Imperator Caesar Divi filius Augustus (nelle epigrafi IMPERATOR•CAESAR•DIVI•FILIVS•AVGVSTVS).

Nel 23 a.C. gli fu riconosciuta la tribunicia potestas (che mantenne poi a vita) e l'Imperium proconsulare a vita; mentre nel 12 a.C. divenne Pontefice massimo con la morte di Marco Emilio Lepido. Restò al potere sino alla morte e il suo principato fu il più lungo della Roma imperiale (44 anni dal 30 a.C., 41 anni dal 27 a.C., 37 anni dal 23 a.C.)

«Ottenne magistrature ed onori prima del tempo [legale]: alcune furono create appositamente per lui o gli furono attribuite in modo perpetuo.»
(Svetonio,Augustus, 26)

L'età di Augusto rappresentò un momento di svolta nella storia di Roma e il definitivo passaggio dal periodo repubblicano al principato. La rivoluzione dal vecchio al nuovo sistema politico contrassegnò anche la sfera economica, militare, amministrativa, giuridica e culturale.

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Augusto, negli oltre quarant'anni di principato, introdusse riforme d'importanza cruciale per i successivi tre secoli:

  • riformò il cursus honorum di tutte le principali magistrature romane, ricostruendo la nuova classe politica e aristocratica, e formando una nuova classe dinastica;
  • riordinò il nuovo sistema amministrativo provinciale anche grazie alla creazione di ventotto colonie e numerosi municipi che favorirono la romanizzazione dell'intero bacino del Mediterraneo;
  • riorganizzò le forze armate di terra (con l'introduzione di milizie specializzate per la difesa e la sicurezza dell'Urbe, come le coorti urbane, i vigiles e la guardia pretoriana) e di mare (con la formazione di nuove flotte in Italia e nelle provincie);
  • riformò il sistema di difesa dei confini imperiali, acquartierando in modo permanente legioni e auxilia in fortezze e forti lungo l'intero limes;
  • fece di Roma una città monumentale con la costruzione di numerosi nuovi edifici, avvalendosi di un collaboratore come Marco Vipsanio Agrippa;
  • favorì la rinascita economica e il commercio, grazie alla pacificazione dell'intera area mediterranea, alla costruzione di porti, strade, ponti e ad un piano di conquiste territoriali senza precedenti, che portarono all'aerarium immense e insperate risorse (basti pensare al tesoro tolemaico o al grano egiziano, alle miniere d'oro dei Cantabri o quelle d'argento dell'Illirico);
  • promosse una politica sociale più equa verso le classi meno abbienti, con continuative elargizioni di grano e la costruzione di nuove opere di pubblica utilità (come terme, acquedotti e fori);
  • diede nuovo impulso alla cultura, grazie anche all'aiuto di Mecenate;
  • introdusse una serie di leggi a protezione della famiglia e del mos maiorum chiamate leges Iuliae;
  • riordinò il sistema monetario (23-15 a.C.), che rimase praticamente immutato per due secoli;
  • Ristabilì nel calendario l'ordine introdotto da Giulio Cesare, che era stato con le guerre civili sconvolto, dando poi il proprio soprannome al mese Sestile invece che a quello di settembre, in cui era nato, perché durante il Sestile era divenuto per la prima volta console e aveva ottenuto grandi vittorie.

Fonti e storiografia

Le principali fonti per la vita e il ruolo di Ottaviano Augusto e degli altri membri della famiglia imperiale sono rappresentate dalle biografie di Svetonio (Vite dei dodici Cesari), oltre a Appiano di Alessandria (Historia Romana), Sesto Aurelio Vittore (De Caesaribus), Cassio Dione Cocceiano (Historia Romana), Publio Cornelio Tacito (Annales), Velleio Patercolo (Historiae Romanae) e lo stesso Augusto (Res Gestae Divi Augusti).

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Nome

Nel corso della sua vita, Augusto ebbe modo di mutare più volte il suo nome. Si riportano di seguito i nomi utilizzati nelle varie fasi della sua vita.

  • Il nome alla nascita del futuro Augusto era Gaius Octavius, omonimo del padre biologico Gaio Ottavio. Svetoniogli attribuisce in origine il cognomen Thurinus, che tuttavia non sembra essere mai stato usato. Dione Cassio cita Kaipias come altro, poco attestato, cognomen di Augusto. Nel periodo compreso tra la nascita e l'adozione da parte di Cesare, gli storici si riferiscono a lui come Ottavio (o Ottaviano) .
  • L'8 maggio del 44 a.C., in seguito all'adozione testamentaria da parte di Cesare, il suo nome ufficiale divenne Gaius Iulius Caesar o, in forma completa con la filiazione Gaius Iulius C. f. Caesar (Gaio Giulio Cesare figlio di Gaio). Il cognomen aggiuntivo, come era di prassi dopo un'adozione, era Octavianus, ma Augusto non l'ha mai utilizzato e i suoi contemporanei lo chiamavano in questo periodo Caesar, anche se altri, tra cui Cicerone, usarono chiamarlo Octavianus. Anche la letteratura scientifica moderna usa per il periodo della sua ascesa (44 - 27 a.C.) prevalentemente il nome di Octavianus o Ottaviano, per differenziarlo sia da Gaio Giulio Cesare che anche dal suo ruolo successivo di Augusto.
  • Nel gennaio del 42 a.C., dopo la deificazione ufficiale di Cesare, Augusto aggiunse al nome Divi Filius, diventando Gaius Iulius Caesar Divi Filius Imperator..
  • Nel 40 o nel 38 a.C., sostituì il praenomen Gaius e il nomen Iulius con Imperator, diventando Imperator Caesar Divi Filius. Contemporaneamente, usò Caesar, originariamente un cognomen, al posto del gentilizio Iulius, cosicché il nome divenne (Imperator Caesar Divi filius). L'assunzione del titolo di Imperator come praenomen avvenne forse già nel 41 a.C. e comunque non dopo il 31 a.C..
  • Il 16 gennaio 27 a.C., dopo la vittoria di Azio, il Senato gli conferì il titolo onorifico di Augustus, cosicché il nome assunse la forma Imperator Caesar Divi filius Augustus. Il nome di Augusto è usato dagli storici per riferirsi a lui nel periodo compreso tra il 27 a.C. e la sua morte. Il nome Augusto assieme a quello di Cesare divenne sin dall'inizio del principato con il suo successore Tiberio parte sostanziale della titolatura imperiale. Al contrario Imperator non fu usato dai primi successori di Augusto come praenomen.
  • Al momento della morte, il nome e la sua titolatura erano: Imperator Caesar Divi filius Augustus, Pontifex Maximus, Co(n) s(ul) XIII, Imp(erator) XXI, Trib(unicia) pot(estate) XXXVII, P(ater) p(atriae) (in italiano: „Imperatore Cesare, figlio del divo, Augusto, Pontefice massimo, 13 volte console, 21 volte imperatore, 37 volte detentore della Tribunicia potestas, Padre della patria“).
  • Dopo la sua consacrazione nel 14 d.C. il suo nome ufficiale divenne Divus Augustus Divi filius.
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Origini della sua famiglia

Era figlio di Gaio Ottavio, uomo d'affari che aveva ottenuto, primo della gens Octavia (ricca famiglia di Velitrae), cariche pubbliche e un posto in Senato (era quindi un homo novus). La madre, Azia maggiore, proveniva invece da una famiglia da parecchie generazioni di rango senatorio e dagli illustri natali: era infatti imparentata sia con Cesare che con Gneo Pompeo Magno. Azia era più precisamente la figlia della sorella di Cesare, Giulia minore, e di Marco Azio Balbo; Ottaviano, pertanto, era pronipote di Cesare.

Giovinezza (63-44 a.C.)

Nacque a Roma nove giorni prima delle Calende di prima dell'alba, in quella parte del Palatino denominata ad Capita Bubula («teste di bue»), dove dopo la sua morte venne costruito un santuario a lui dedicato. Svetonio aggiunge che inizialmente abitò nei pressi del Foro Romano, sopra le "scale degli orefici", nella casa che era stata dell'oratore Gaio Licinio Calvo, nei pressi del colle Velia. In seguito si trasferì sul Palatino, in una casa ugualmente modesta che era appartenuta al consolare ed oratore Quinto Ortensio Ortalo, di non grande ampiezza e priva di lusso, visto che le colonne dei suoi portici piuttosto basse, erano di pietra del monte Albano, mentre nelle stanze non c'era né marmo, né mosaici. Dormì nella stessa camera per più di quarant'anni, anche d'inverno, sebbene considerasse poco adatto alla sua salute il clima invernale di Roma.

Il suo nome alla nascita era Gaio Ottavio cui fu aggiunto Turino quando era fanciullo (Gaius Octavius Thurinus), soprannome in ricordo di suo padre Ottavio, vittorioso contro gli schiavi fuggitivi nella regione di Thurii.

Circa a quattro anni perse il padre (nel 59 a.C.). A dodici anni circa pronunciò l'orazione funebre (laudatio funebris) per sua nonna Giulia (nel 51 a.C.). Svetonio racconta di un episodio avvenuto in questo periodo secondo il quale, Cicerone, mentre accompagnava Gaio Giulio Cesare in Campidoglio, raccontò agli amici di aver fatto un sogno la notte precedente. Nel sogno aveva visto un fanciullo dai nobili lineamenti, che scendeva dal cielo appeso ad una catena d'oro e si fermava davanti alle porte del Campidoglio, dove Giove gli consegnava una frusta. Quando Cicerone vide Ottaviano, che lo zio Cesare aveva fatto venire ad un sacrificio, disse che era proprio lui il ragazzo apparsogli in sogno.

Quattro anni dopo all'età di sedici anni indossò la toga virile e ottenne alcune ricompense militari in Africa, in occasione del trionfo del prozio Gaio Giulio Cesare, senza nemmeno aver partecipato alla guerra per la giovane età. Quando poi lo zio partì per la Spagna per combattere contro i figli di Pompeo, lo seguì, sebbene ancora convalescente da una grave malattia. Raggiunse Cesare con una scorta ridotta, dopo aver percorso strade infestate da nemici e dopo un naufragio. Si fece subito apprezzare dallo zio per il coraggio dimostrato. Dopo aver portato a termine anche la guerra in Spagna, Cesare, che progettava una campagna militare prima contro i Daci e poi contro i Parti, lo inviò ad Apollonia, dove poté dedicarsi allo studio.

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Svetonio racconta che durante il soggiorno ad Apollonia, Ottaviano era salito insieme al fedele amico, Marco Vipsanio Agrippa, all'osservatorio dell'astrologo Teogene. Fu Agrippa a consultarlo per primo, ricevendo splendide previsioni sulla sua vita futura, quasi incredibili. Ottaviano, temendo di essere considerato di origini oscure, preferì inizialmente non fornire i dati relativi alla propria nascita, ma dopo numerose preghiere, vi acconsentì. Teogene allora si alzò dal suo seggio e lo adorò. Per questo motivo Ottaviano ebbe così tanta fiducia nel suo destino che fece pubblicare il suo oroscopo e coniare una moneta d'argento con il segno del capricorno, suo ascendente: in epoca imperiale si dava più importanza a quest'ultimo piuttosto che al segno di nascita (bilancia per Augusto).

Nel 44 a.C., in occasione della morte di Cesare, seppe di essere stato adottato per testamento dal prozio come figlio ed erede e, secondo la consuetudine, assunse il nomen gentilizio (Iulius) e il cognomen (Caesar) del padre adottivo, omettendo però di aggiungere come tradizione un secondo cognome derivato della gens di provenienza aggettivata in -anus, divenendo così Gaio Giulio Cesare (Gaius Iulius Caesar). Il nome Ottaviano venne generalmente diffuso dalla propaganda degli avversari politici, ma non risulta nei documenti ufficiali. Si narra che poco prima di venire assassinato, Cesare lo avesse nominato magister equitum in seconda, accanto a Marco Emilio Lepido, in vista della grande spedizione d'Oriente che stava preparando contro i Parti, inviandolo appena diciottenne a sorvegliare i preparativi per la futura guerra ad Apollonia. È qui che Ottaviano fu informato dell'uccisione del prozio (15 marzo 44 a.C.), pur restando indeciso sul da farsi, se chiamare in aiuto le legioni orientali o lasciar perdere, preferì desistere da un'impresa tanto temeraria e tornare a Roma a reclamare i suoi diritti di figlio adottivo e di erede di Cesare. Ancora Svetonio racconta di un episodio curioso:

«Tornando da Apollonia a Roma, dopo la morte di Cesare, nel cielo limpido e puro apparve all'improvviso un cerchio, simile all'arcobaleno, che circondò il sole, mentre la tomba di Giulia, figlia di Cesare, fu colpita più volte da un fulmine. [...] Tutti l'interpretarono come un presagio di grandezza e prosperità.»
(Svetonio,Augustus, 95.)

Giunto nella capitale rivendicò la sua eredità, nonostante le esitazioni di sua madre e l'opposizione del patrigno Lucio Marcio Filippo, ex console che aveva sposato la madre Azia dopo la morte del padre (59 a.C.)

«Da questo momento, Ottaviano si procurò un esercito e governò la Res publica prima con Marco Antonio e Marco Lepido, poi per circa 12 anni con il solo Antonio (dal 42 al 30 a.C.), e infine per 44 anni da solo (dal 30 a.C. al 14 d.C.).»
(Svetonio,Augustus, 8)
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Ascesa al potere (44-23 a.C.)

Come erede principale di Cesare, Ottaviano aveva diritto a tre quarti delle sue ricchezze. Informato dell'uccisione del prozio, decise di tornare a Roma per reclamare i suoi diritti di figlio adottivo. Assieme a lui erano stati nominati eredi Lucio Pinario e Quinto Pedio, a cui spettava il restante quarto del patrimonio di Cesare; solo Ottaviano, però, poté prendere, in quanto unico figlio adottivo, il nome del defunto, divenendo così Gaio Giulio Cesare Ottaviano. Cesare lasciava, inoltre, agli abitanti di Roma trecento sesterzi ciascuno, oltre ai suoi giardini lungo le rive del Tevere (Horti Caesaris).

Svetonio sintetizzò il periodo che seguì delle guerre civili come segue:

«Augusto combatté cinque guerre civili: a Modena, a Filippi, a Perugia, in Sicilia e ad Azio. La prima e l'ultima contro Marco Antonio, la seconda contro Bruto e Cassio, la terza contro Lucio Antonio, fratello del triumviro, la quarta contro Sesto Pompeo, figlio di Gneo.»
(Svetonio,Augustus, 9)
Erede di Cesare

Sbarcato a Brindisi, dove ricevette il benvenuto dalle legioni di Cesare lì acquartierate in attesa della spedizione in Oriente, Ottaviano si impossessò dei circa 700 milioni di sesterzi di denaro pubblico destinati alla guerra contro i Parti, che utilizzò per acquisire ulteriore favore tra i soldati e tra i veterani di Cesare stanziati in Campania.

«Ritenendo che la cosa più importante fosse quella di vendicare la morte di suo zio e di difendere ciò che aveva fatto, appena tornò da Apollonia, decise di essere estremamente duro con Bruto e Cassio, i quali non se lo aspettavano, e quando questi capirono di essere in pericolo, fuggirono; [allora Ottaviano] li perseguì con un'azione legale atta a farli condannare per omicidio.»
(Svetonio,Augustus, 10)

Ottaviano giunse a Roma il 21 maggio, dopo che i cesaricidi avevano già da più di un mese lasciato la città, grazie ad un'amnistia concessa dal console superstite, Marco Antonio. Il giovane si affrettò a rivendicare il nome adottivo di Gaio Giulio Cesare, dichiarando pubblicamente di accettare l'eredità del padre e chiedendo pertanto di entrare in possesso dei beni familiari. Antonio, che in qualità di console e capo della fazione cesariana deteneva in quel momento il controllo del patrimonio, procrastinò però il versamento adducendo la necessità di attendere che una lex curiata del Senato ratificasse il testamento del defunto. Ottaviano decise allora, impegnando i propri beni, di anticipare al popolo le somme che Cesare aveva lasciato nel suo testamento e di eseguire i giochi per la vittoria di Farsalo. Ottenne così che molti dei cesariani si schierassero dalla sua parte contro Antonio, suo diretto avversario nella successione politica a Cesare.

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Il Senato, e in particolare Marco Tullio Cicerone, che lo vedeva in quel momento come un principiante inesperto data la sua giovane età (e così Antonio che lo riteneva un ragazzo "di tutto debitore al nome" del padre), pronto ad essere manovrato dall'aristocrazia senatoria, e che apprezzava l'indebolimento della posizione di Antonio, approvò la ratifica del testamento, riconoscendo ad Ottaviano lo status di erede legittimo di Giulio Cesare. Con il patrimonio di Cesare ora a sua disposizione, Ottaviano poté quindi reclutare in giugno un esercito privato di circa 3.000 veterani, garantendo a ciascuno di loro un salario di 500 denari, mentre Marco Antonio, ottenuta con legge speciale (lex de permutatione provinciarum) l'assegnazione - al termine del suo anno consolare - della Gallia cisalpina già affidata al propretore Decimo Bruto, si accingeva a portare guerra ai cesaricidi per recuperare il favore della fazione cesariana. In quest'occasione Cicerone scriveva ad Attico manifestando certezza sulla fedeltà di Ottaviano alla causa repubblicana, sicuro della possibilità di sfruttare le potenzialità di quel giovane rampollo per eliminare Antonio, uscito indenne (con grave dispiacere dell'oratore) dalle Idi. Tacito commenterà che in quell'occasione l'erede di Cesare simulò soltanto la fedeltà al partito neo-pompeiano comandato in quel momento da Cicerone, con l'idea - come si vedrà in seguito - di trarre profitto dalla situazione.

Frattanto Ottaviano, poiché i magistrati incaricati non osavano celebrare i Ludi per la vittoria del prozio Cesare, si occupò personalmente di organizzarli (dal 5 al 19 settembre del 44 a.C.). In seguito, per riuscire a portare a termine altri suoi progetti, sebbene fosse patrizio ma non ancora senatore, si presentò come candidato per sostituire un tribuno della plebe, che era appena deceduto. La sua candidatura incontrò l'opposizione del console Marco Antonio, sul cui appoggio il giovane Ottaviano contava, ma che evidentemente aspirava ad ottenere una grossa ricompensa. Questa prima incomprensione con Antonio lo indusse a passare dalla parte degli ottimati.

Primo conflitto con Antonio (43 a.C.)

Quando nel mese di ottobre, l'appoggio del Senato ad Ottaviano si fece più pressante, con Cicerone che tuonava con le sue Filippiche contro Antonio, questi decise di riprendere il controllo della situazione richiamando in Italia le legioni stanziate in Macedonia. Di fronte a quella minaccia, Ottaviano in novembre richiamò allora i veterani di Cesare a lui fedeli, ottenendo ben presto anche la diserzione di due delle legioni macedoni di Antonio, la IV e la Martia, appena sbarcate.

Fallito, per l'opposizione del Senato (Cicerone è infatti sicuro della fedeltà del giovane), il tentativo di far dichiarare Ottaviano hostis publicus per aver reclutato un esercito senza averne l'autorità (in realtà sarà Antonio ad essere indicato come nemico dello Stato avendo preso d'assedio illegalmente un legittimo propretore), il console decise allora di accelerare i tempi dell'occupazione della Cisalpina, in modo da garantirsi una posizione di forza per l'anno successivo. Ricevuto il rifiuto da parte di Decimo Bruto alla cessione della Cisalpina, Antonio, grazie al consenso del Senato, poté marciare su Modena, dove strinse d'assedio Bruto.

Intanto Ottaviano, su consiglio di alcuni ottimati, provò ad assoldare alcuni sicari perché uccidessero Antonio, ma scoperto il suo tentativo, credendosi a sua volta in pericolo, arruolò una buona parte dei veterani di Cesare, facendo loro grandi largizioni per ottenerne il loro aiuto. Il 1º gennaio del 43 a.C., giorno dell'insediamento dei nuovi consoli Pansa e Irzio, il Senato decretò l'abrogazione della legge che assegnava ad Antonio la Gallia Cisalpina e ordinò a questi di cessare immediatamente gli attacchi a Decimo Bruto. Ottenutone un netto rifiuto, i consoli vennero incaricati di marciare contro Antonio assieme ad Ottaviano, cui venne conferito eccezionalmente l'imperium di pretore sì da legalizzare la condizione del suo esercito privato.

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Il 14 aprile e il 21 aprile Antonio venne sconfitto nella battaglia di Forum Gallorum e nella battaglia di Modena, nelle quali, però, rimasero uccisi i due consoli Irzio e Pansa, Ottaviano prese parte personalmente ai combattimenti del 21 aprile all'interno del campo di Antonio e alla fine rimase unico comandante delle legioni repubblicane.

«Durante il primo scontro, se dobbiamo credere a quanto scrive Antonio, Ottaviano si diede alla fuga e ricomparve due giorni dopo, senza il suo mantello di comandante ed il cavallo; ma nella seconda sappiamo che fece il suo dovere non solo come generale, ma anche come soldato: vedendo, nel mezzo della battaglia, che l'aquilifer della sua legione era ormai ferito gravemente, prese con sé l'aquila sulle spalle e la tenne con sé per il tempo necessario.»
(Svetonio,Augustus, 10)

Svetonio aggiunge che corse voce allora che fosse stato Ottaviano a far uccidere Aulo Irzio e Gaio Vibio Pansa, poiché, una volta messo in fuga Antonio e tolti di mezzo entrambi i consoli, potesse rimanere unico padrone degli eserciti vincitori. Tanto è vero che da Cicerone apprendiamo che, al termine della battaglia di Forum Gallorum, Pansa si ritirò al campo ferito, ma ancora in vita. Una lettera a Cicerone scritta da Servio Sulpicio Galba, testimone oculare della battaglia, tace su eventuali ferite a danno del console. Nel resoconto appianeo l'altro console, Irzio, risulta invece morire durante l'assalto al campo di Antonio, ma questa notizia è sospetta in quanto è quasi certo che Appiano abbia attinto all'autobiografia perduta di Augusto.

Ad ogni modo la morte di Pansa sembrò talmente sospetta che Glicone, il suo medico, fu messo in prigione con l'accusa di aver lavato la ferita con il veleno. Aquilio Nigro sostenne, infine, che nella confusione della battaglia l'altro console, Irzio, fu ucciso dallo stesso Augusto. E quando venne a sapere che Antonio, dopo la sconfitta, era stato accolto da Marco Emilio Lepido e che anche altri comandanti, insieme ai loro eserciti, si stavano avvicinando al partito a lui avverso, abbandonò la causa degli ottimati. La tesi del complotto di Ottaviano sembra essere sostenuta anche da Tacito, che scrive:

«...tolti di mezzo Irzio e Pansa (furono uccisi dai nemici? Oppure a Pansa sparsero del veleno sulla ferita e Irzio venne ucciso dai suoi soldati e per macchinazione dello stesso Augusto?), si era impadronito delle loro truppe; che aveva estorto il consolato a un senato riluttante e rivolto le armi, avute per combattere Antonio, contro lo stato...»
(Tacito, Annales, I, 10)

Tornato a Roma con l'esercito, infatti, malgrado la giovane età (aveva soli vent'anni), Ottaviano si fece eleggere console suffectus assieme a Quinto Pedio, ottenendo compensi per i suoi legionari e facendo approvare dal Senato la lex Pedia contro i cesaricidi. In tal modo i consoli poterono rifiutarsi di portare ulteriore soccorso a Decimo Bruto, che, in fuga, venne infine ucciso nella Cisalpina da un capo gallo fedele ad Antonio. Svetonio racconta che:

«A vent'anni prese il consolato, facendo avanzare minacciosamente le sue legioni verso Roma (urbem) e inviando quei [soldati] che chiedessero per lui a nome dell'esercito; quando il Senato sembrò esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettando indietro il suo mantello e mostrando l'impugnatura del suo gladio, non esitò a dire nella Curia: "Se non lo farete [console] voi, questa [spada] lo farà".»
(Svetonio,Augustus, 26)
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Il secondo triumvirato (43-33 a.C.)

Dalla sua nuova posizione di forza, divenuto legalmente a capo dello Stato romano, Ottaviano prese contatti con il principale sostenitore di Antonio, il pontefice massimo Marco Emilio Lepido, già magister equitum di Cesare, con l'intenzione di ricomporre i dissidi interni alla fazione cesariana. Con gli auspici di Lepido, ottenne dunque che fosse organizzato un incontro a tre con Antonio nei pressi di Bononia. Da quel colloquio privato nacque un accordo a tre, tra lui, Antonio e Lepido della durata di cinque anni. Si trattava del secondo triumvirato, riconosciuto legalmente dal Senato il 27 novembre di quello stesso anno con la Lex Titia, in cui veniva creata la speciale magistratura dei Triumviri rei publicae constituendae consulari potestate, ovvero "triumviri per la costituzione dello stato con potere consolare".

«Per dieci anni fece parte del triumvirato, creato per dare un nuovo ordine alla Repubblica: come suo membro cercò inizialmente di impedire che si iniziassero le proscrizioni, ma quando esse cominciarono si mostrò più spietato degli altri due. [...] lui solo si batté in modo ostinato affinché non venisse risparmiato nessuno, arrivando a proscrivere anche C. Toranio, suo tutore, che era stato, inoltre, collega di suo padre come edile. [...] più tardi si pentì di questa sua ostinazione e promosse al rango di cavaliere T. Vinio Filopomeno, che sembra avesse nascosto il suo padrone, quando era proscritto.»
(Svetonio,Augustus, 27)

Il patto prevedeva la divisione dei territori romani: ad Ottaviano toccarono Siria, Sardegna e Africa proconsolaris. Furono contestualmente redatte delle liste di proscrizione contro gli oppositori di Cesare, che portarono alla confisca dei beni e all'uccisione di un gran numero di senatori e cavalieri, tra cui lo stesso Cicerone che pagò le Filippiche rivolte contro Antonio. Si preparò nel contempo la guerra contro Bruto e Cassio e i cesaricidi.

La battaglia di Filippi (42 a.C.)

Nell'ottobre del 42 a.C. Antonio e Ottaviano, lasciato Lepido al governo della capitale, si scontrarono con i cesaricidi Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino e li sconfissero in due scontri a Filippi, nella Macedonia orientale. I due anticesariani trovarono la morte suicidandosi. La battaglia fu vinta soprattutto per merito di Antonio e la parte di Ottaviano non fu certo gloriosa visto che Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis historia, afferma che "alla battaglia di Filippi [Ottaviano] cadde malato, fuggì e si nascose per tre giorni in una palude" o come riferisce Svetonio "il suo campo venne preso dal nemico e riuscì a scappare a stento, rifugiandosi dalla parte dove si trovava l'esercito di Antonio". La versione ufficiale fu che Ottaviano era stato esortato a fuggire in un sogno avuto dal suo medico.

«Non fu certo moderato dopo la vittoria. Al contrario inviò a Roma la testa di Bruto affinché fosse gettata ai piedi della statua di Cesare; si accanì contro tutti i prigionieri nobili, riempiendoli di insulti; [...] due prigionieri, padre e figlio, chiedevano la grazia di essere lasciati in vita, ma egli dispose che tirassero a sorte o giocassero alla morra per sapere chi dei due si sarebbe salvato. Poi assistette mentre morivano, poiché il padre, che si era offerto, venne sgozzato dallo stesso Ottaviano, mentre il figlio si suicidò. Ciò indusse tutti gli altri prigionieri [...] quando vennero condotti al supplizio in catene, a salutare rispettosamente Antonio con il titolo di generale, non invece Ottaviano che ricoprirono dei più mostruosi insulti.»
(Svetonio,Augustus, 13)

Ottaviano, Antonio e Lepido trovandosi padroni, ora, dei territori orientali procedettero ad una nuova spartizione delle province: a Lepido furono lasciate la Numidia e l'Africa proconsolaris, ad Antonio, la Gallia, la Transpadania e l'Oriente romano, ad Ottaviano spettarono l'Italia, la Sicilia, l'Iberia, e la Sardegna e Corsica.

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Primi contrasti (41-39 a.C.)

Successivamente nacquero i primi contrasti: Lucio Antonio, fratello di Antonio, nel 41 a.C. si ribellò ad Ottaviano poiché pretendeva che anche ai veterani del fratello fossero distribuite terre in Italia (oltre ai 170.000 veterani di Ottaviano), ma fu sconfitto a Perugia nel 40 a.C.. Svetonio racconta che durante l'assedio di Perugia, mentre stava facendo un sacrificio non molto distante dalle mura cittadine, per poco non fu ucciso da un gruppo di gladiatori che avevano compiuto una sortita dalla città. Non si può provare che Antonio fosse a conoscenza delle azioni del fratello ma, dopo la sconfitta di quest'ultimo, entrambi decisero di non dare troppo peso all'accaduto (Lucio Antonio fu risparmiato e perfino inviato in Spagna come governatore). Contemporaneamente a questi fatti, il legato di Antonio in Gallia, un certo Quinto Fufio Caleno, morì e le sue legioni passarono dalla parte di Ottaviano, che poté appropriarsi di nuove province del rivale. Svetonio aggiunge:

«Dopo l'occupazione di Perugia, [Ottaviano] prese provvedimenti contro un gran numero di prigionieri e a chi chiedeva la grazia e di essere perdonato, rispose: «Si deve morire.» Altri dicono che, tra quelli che si erano arresi, ne scelse trecento tra i due ordini [senatorio e equestre] e li mandò a morte per le idi di marzo, di fronte ad un altare posto in onore del divo Giulio. Altri ancora raccontano che Ottaviano prese le armi in accordo con Antonio, per smascherare gli avversari che si nascondevano, [...] Dopo averli sconfitti, confiscò i loro beni per poter mantenere le promesse di donativa fatte ai veterani.»
(Svetonio,Augustus, 15)

Ottaviano a questo punto cercò un'intesa con Sesto Pompeo e, per sancire l'alleanza, sposò Scribonia, parente dello stesso Sesto: da questa donna, Ottaviano ebbe la sua unica figlia, Giulia. In realtà, però, né l'intesa, né il matrimonio durarono a lungo. Nell'estate del 40 a.C. Ottaviano e Antonio vennero ad aperte ostilità: Antonio cercò di sbarcare a Brindisi con l'aiuto di Sesto Pompeo, ma la città gli chiuse le porte. I soldati di ambedue le fazioni si rifiutarono di combattere e i triumviri, pertanto, misero da parte le discordie. Con il trattato di Brindisi (settembre del 40 a.C.) si venne ad una nuova divisione delle province: ad Antonio restò l'Oriente romano da Scutari, compresa la Macedonia e l'Acaia; ad Ottaviano l'Occidente compreso l'Illirico; a Lepido, ormai fuori dai giochi di potere, l'Africa e la Numidia; a Sesto Pompeo fu confermata la Sicilia per metterlo a tacere, affinché non arrecasse problemi in Occidente. Il patto fu sancito con il matrimonio tra Antonio, la cui moglie Fulva era morta da poco, e la sorella di Ottaviano, Ottavia minore. Dopo la pace di Brindisi, Ottaviano ruppe inoltre l'alleanza con Sesto Pompeo, ripudiò Scribonia, e sposò Livia Drusilla, madre di Tiberio e in attesa di un secondo figlio.

Nel 39 a.C., a Miseno, Ottaviano attribuì a Sesto Pompeo le province di Sardegna e Corsica, fondando dunque la città di Turris Libisonis, porto granario di Roma e promettendogli l'Acaia, ottenendo in cambio la ripresa dei rifornimenti a Roma (Pompeo con la sua flotta bloccava le navi provenienti dal Mediterraneo). Sesto Pompeo, però, stava diventando un alleato scomodo e Ottaviano decise di disfarsene di lì a poco. Si arrivò così ad una prima serie di scontri non particolarmente felici per Ottaviano: la flotta preparata per invadere la Sicilia fu infatti distrutta sia da Sesto sia da un violento fortunale.

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Rinnovo e fine del triumvirato (38-33 a.C.)

Nel 38 a.C. Ottaviano si risolse ad incontrarsi a Brundisium con Antonio e Lepido per rinnovare il patto di alleanza per altri cinque anni. Nel 36 a.C., però, grazie all'amico e generale Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano riuscì a porre fine alla guerra con Sesto Pompeo. Quest'ultimo, grazie anche ad alcuni rinforzi inviati da Antonio, fu infatti sconfitto definitivamente presso Nauloco.

«La guerra di Sicilia fu una delle prime che [Ottaviano] cominciò, ma venne trascinata per lungo tempo, poiché fu interrotta più volte, sia per ricostituire le sue flotte che erano state distrutte dalle tempeste in due circostanze, nel bel mezzo dell'estate; sia perché, essendo stati interrotti i rifornimenti di grano alla città di Roma fu costretto a chiedere la pace, su insistenza del popolo, visto che la fame andava aggravandosi.»
(Svetonio,Augustus, 16)

Ancora Svetonio racconta di altri episodi curiosi di questa guerra contro Pompeo, che vide Ottaviano:

«al momento di combattere, fu preso da un colpo di sonno così profondo che i suoi amici faticarono molto per svegliarlo, affinché desse il segnale d'attacco. Per questo motivo Antonio, lo credo io [Svetonio], aveva tutte le sue buone ragioni per rimproverarlo, sostenendo che egli non avesse avuto neppure il coraggio di osservare una flotta schierata a battaglia, al contrario di essere rimasto sdraiato sul dorso con gli occhi rivolti al cielo, terrorizzato, rimanendo in quella posizione, senza presentarsi ai soldati, fino a quando Agrippa non mise in fuga la flotta nemica. [...] Dopo aver fatto passare in Sicilia un'armata, tornò in Italia a prendere le restanti truppe, ma fu assalito all'improvviso da Democaro e Apollofane, luogotenenti di Pompeo; fu un miracolo se riuscì a salvarsi, fuggendo su una sola imbarcazione. Un'altra volta, quando si trovava a piedi nei pressi di Locri, in direzione di Reggio, vide da lontano le navi di Pompeo lungo la costa. Convinto che fossero le sue, si diresse in spiaggia e per poco non venne fatto prigioniero. E proprio in questa circostanza, mentre fuggiva per sentieri impraticabili in compagnia di Paolo Emilio, uno schiavo di quest'ultimo, poiché lo odiava in quanto in passato [Ottaviano] aveva proscritto il padre del suo padrone, provando a vendicarsi, tentò di ucciderlo.»
(Svetonio,Augustus, 16)

La Sicilia cadde e Sesto Pompeo fuggì in Oriente, dove poco dopo fu assassinato dai sicari di Antonio.

A quel punto, però, Ottaviano dovette far fronte alle ambizioni di Lepido, il quale riteneva che la Sicilia dovesse toccare a lui e, rompendo il patto di alleanza, mosse per impossessarsene con venti legioni. Sconfitto però rapidamente, dopo che i suoi soldati lo abbandonarono passando dalla parte di Ottaviano, Lepido fu infine confinato al Circeo, pur conservando la carica pubblica di pontifex maximus.

Dopo l'eliminazione graduale di tutti i contendenti nell'arco di sei anni, da Bruto e Cassio, a Sesto Pompeo e Lepido, la situazione rimase nelle sole mani di Ottaviano, in Occidente, e Antonio, in Oriente, portando un inevitabile aumento dei contrasti tra i due triumviri, ciascuno troppo ingombrante per l'altro, tanto più che i successi ottenuti nelle campagne militari di Ottaviano in Illirico (35-33 a.C.) e contro Lepido non erano stati compensati da Antonio in Oriente contro i Parti, limitandosi alla sola acquisizione in dote dell'Armenia. Ottenne un nuovo consolato, il secondo, nove anni dopo il primo (nel 33 a.C.) ed un terzo, un anno dopo il secondo (nel 31 a.C.). Alla sua scadenza, nel 33 a.C., il triumvirato non venne rinnovato (durò infatti 10 anni) e, cosa ben più grave, Antonio ripudiò (32 a.C.) la sorella di Ottaviano con un affronto per quest'ultimo intollerabile.

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Guerra con Antonio e la vittoria di Azio (33-31 a.C.)

Il conflitto era ora inevitabile. Mancava solo il casus belli, che Ottaviano trovò nel testamento di Antonio, in cui risultavano le sue decisioni di lasciare i territori orientali di Roma a Cleopatra VII d'Egitto e ai suoi figli, compreso Cesarione, figlio di Gaio Giulio Cesare. Svetonio ricorda infatti che nel 32 a.C.:

«La sua alleanza con Antonio era sempre stata dubbia e poco stabile, mentre le loro continue riconciliazioni altro non erano che momentanei accomodamenti; alla fine si giunse alla rottura definitiva e per meglio dimostrare che Antonio non era più degno di essere un cittadino romano, aprì il suo testamento, da Antonio lasciato a Roma, e lo lesse davanti all'assemblea, dove designava come suoi eredi anche i figli che aveva avuto da Cleopatra.»
(Svetonio,Augustus, 17)

Ancora Svetonio aggiunge che Antonio scriveva ad Augusto in modo confidenziale, quando ancora non era ancora scoppiata la guerra civile tra loro:

«Che cosa ti ha cambiato? Il fatto che mi accoppio con una regina? È mia moglie. Non sono forse nove anni che iniziò [la nostra storia d'amore]? E tu ti accoppi solo con Drusilla? E così starai bene se quando leggerai questa lettera, non ti sarai accoppiato con Tertullia, o Terentilla, o Rufilla, o Salvia Titisenia o tutte. Giova forse dove e con chi ti accoppi?»
(Svetonio,Augustus, 69.)

In seguito quando fece dichiarare nemico pubblico Antonio, gli rimandò i suoi parenti e i suoi amici, tra cui i consoli Gaio Sosio e Domizio Enobarbo. Poi il Senato di Roma dichiarò guerra a Cleopatra, ultima regina tolemaica di Egitto, sul finire del 32 a.C. Antonio e Cleopatra furono sconfitti nella battaglia di Azio, del 2 settembre 31 a.C. e si suicidarono entrambi, l'anno successivo in Egitto.

Da Ottaviano ad Augusto (30-23 a.C.)

Dopo Azio, Ottaviano non solo ordinò di uccidere il figlio di Cleopatra, Cesarione (la cui paternità veniva attribuita dalla regina a Cesare), ma decise di annettere l'Egitto (30 a.C.), compiendo l'unificazione dell'intero bacino del Mediterraneo sotto Roma, e facendo di questa nuova acquisizione la prima provincia imperiale, governata da un proprio rappresentante, il prefetto d'Egitto. L'imperium di Ottaviano su questa provincia venne probabilmente sancito da una legge comiziale già nel 29 a.C., due anni prima della messa in opera del nuovo assetto provinciale. Svetonio racconta che in questa circostanza, quando si trovava ancora ad Alessandria d'Egitto, Ottaviano:

«[...] si fece mostrare il sarcofago e il corpo di Alessandro Magno, prelevato dalla sua tomba: gli rese omaggio mettendgli sul capo una corona d'oro intrecciata con fiori. E quando gli chiesero se voleva visitare anche la tomba di Tolomeo, rispose che voleva vedere un re, non dei morti.»
(Svetonio,Augustus, 18)

Per la storiografia moderna più datata, la nuova forma di governo provinciale riservata all'Egitto ebbe origine dal tentativo di compensare gli Egiziani della perdita del loro monarca-dio (il faraone), con la nuova figura del Princeps; in realtà, la scelta di Ottaviano di porre a capo della nuova provincia un prefetto plenipotenziario (figura che derivava direttamente dal prefetto della città tardo-repubblicana), il cosiddetto praefectus Alexandreae et Aegypti, titolo ufficiale attribuito al neo-governatore collegato alla soppressione della Bulè di Alessandria, fu dettata dal contesto in cui avvenne la conquista del paese: la guerra civile, ragioni di ordine strategico-militare nella lotta fra le due factiones tardo-repubblicane pro-occidente o pro-oriente, l'importanza del grano egiziano per l'annona di Roma e, non da ultimo, il tesoro tolemaico. L'aver, infatti, potuto mettere le mani sulle risorse finanziarie dei Tolomei consentì ad Ottaviano di pagare molti debiti di guerra, nonché decine di migliaia di soldati che in tanti anni di campagne lo avevano servito, disponendone l'insediamento in numerose colonie, sparse in tutto il mondo romano. Svetonio aggiunge che Ottaviano:

«[...] per meglio ricordare la vittoria di Azio, fondò nelle vicinanze la città di Nicopoli, dove vennero istituiti dei giochi quinquennali; fece ingrandire l'antico tempio di Apollo e consacrò a Nettuno e a Marte dove aveva posto gli accampamenti, adornandoli con le spoglie navali.»
(Svetonio,Augustus, 18)

Ottaviano era divenuto, di fatto, il padrone assoluto dello Stato romano, anche se formalmente Roma era ancora una repubblica e Ottaviano stesso non era ancora stato investito di alcun potere ufficiale, dato che la sua potestas di triumviro non era stata più rinnovata: nelle Res Gestae riconosce di aver governato in questi anni in virtù del "potitus rerum omnium per consensum universorum" ("consenso generale"), avendo per questo motivo ricevuto una sorta di perpetua tribunicia potestas (certamente un fatto extra-costituzionale).

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Finché questo consenso continuò a comprendere l'appoggio leale degli eserciti, Ottaviano poté governare al sicuro, e la sua vittoria costituì, di fatto, la vittoria dell'Italia sul vicino Oriente; la garanzia che mai l'impero romano avrebbe potuto trovare altrove il suo equilibrio e il suo centro al di fuori di Roma.

Il senato gli conferì progressivamente onori e privilegi, ma il problema che Ottaviano doveva risolvere consisteva nella trasformazione della sostanza dei rapporti istituzionali, lasciando intatta la forma repubblicana. I fondamenti del reale potere vennero individuati nell'imperium e nella tribunicia potestas: il primo, proprio dei consoli, conferiva a chi ne era titolare il potere esecutivo, legislativo e militare, mentre la seconda, propria dei tribuni della plebe, offriva la facoltà di opporsi alle decisioni del senato, controllandone la politica grazie al diritto di veto. Ottaviano cercò di ottenere tali poteri evitando di alterare le istituzioni repubblicane e dunque senza farsi eleggere a vita console e tribuno della plebe ed evitando inoltre la soluzione cesariana (Giulio Cesare era stato eletto, prima annualmente e poi a vita dictator). La carica di dittatore gli fu infatti offerta, ma egli prudentemente la rifiutò:

«Il popolo con grande insistenza offrì ad Augusto la dittatura, ma lo stesso, dopo essersi inginocchiato, fece cadere la toga dalle spalle e, a petto nudo, supplicò che non gli fosse imposta.»
(Svetonio,Augustus, 52)

Egli considerò il titolo di dominus («signore») come un grave insulto e sempre lo respinse con vergogna. Svetonio racconta che un giorno, durante una rappresentazione teatrale alla quale assisteva, un mimo esclamò: O dominum aequum et bonum! («O signore giusto e buono!»). Tutti gli spettatori approvarono esultanti, quasi che l'espressione fosse rivolta ad Augusto, ma egli, non solo pose fine a queste adulazioni con un gesto e lo sguardo, il giorno seguente, emise anche un severo proclama che ne vietasse ulteriori piaggerie. Egli, infine, non permise che lo chiamassero domiunus né i figli o i nipoti, che fosse per gioco o in tono serio. Ancora Svetonio racconta che Ottaviano:

«Due volte pensò di restaurare la Repubblica: la prima volta subito dopo aver sconfitto Antonio, memore che quest'ultimo gli aveva ripetuto spesso che era lui il solo ostacolo al ritorno [della Repubblica]; [la seconda volta] di nuovo nella stanchezza di una malattia persistente. In quella circostanza convocò a casa sua magistrati e senatori dando loro un resoconto dell'Impero. Ma pensando che, come privato cittadino, non avrebbe potuto vivere senza pericolo e temendo di lasciare la Res publica in mano all'arbitrio di molti, continuò a mantenere [il potere]. Non sappiamo quale sia stata la cosa migliore da fare.»
(Svetonio,Augustus, 28)

Nel 27 a.C., Ottaviano restituì formalmente nelle mani del senato e del popolo romano i poteri straordinari assunti per la guerra contro Marco Antonio, ricevendo in cambio: il titolo di console da rinnovare annualmente, una potestas con maggiore auctoritas rispetto agli altri magistrati (consoli e proconsoli), poiché aveva diritto di veto in tutto l'Impero, a sua volta non assoggettato ad alcun veto da parte di qualunque altro magistrato; l'imperium proconsolare decennale, rinnovatogli poi nel 19 a.C., sulle cosiddette province "imperiali" (compreso il controllo dei tributi delle stesse), vale a dire le province dove fosse necessario un comando militare, ponendolo di fatto a capo dell'esercito; il titolo di Augusto (su proposta di Lucio Munazio Planco), cioè "degno di venerazione e di onore", che sancì la sua posizione sacra che si fondava sul consensus universorum di Senato e popolo romano; l'utilizzo del titolo di Princeps ("primo cittadino"); il diritto di condurre trattative con chiunque volesse, compreso il diritto di dichiarare guerra o stipulare trattati di pace con qualunque popolo straniero.

Questi poteri decretarono che le province fossero divise in senatorie, rette da magistrati eletti dal senato, e imperiali, rette da magistrati sottoposti al diretto controllo di Augusto; faceva eccezione l'Egitto, retto da un prefetto di rango equestre, munito di un imperium delegato da Augusto ad similitudinem proconsulis. L'imperium gli consentì di assumere direttamente il comando delle legioni stanziate nelle province "non pacatae" e di avere così costantemente a disposizione una forza militare a garanzia del suo potere, nel nesso inscindibile tra esercito e proprio comandante che era stato creato dalla riforma di Gaio Mario, ormai vecchia più di un secolo. L'imperium gli garantiva, inoltre, la gestione diretta dell'amministrazione e la facoltà di emanare decreta, decisioni di carattere giurisdizionale, ed edicta, decisioni di carattere legislativo.

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Sotto il controllo del senato restarono le truppe di stanza nelle province senatoriali, le quali furono rette da un proconsole o propretore. Il senato stesso avrebbe potuto in qualunque momento emanare un senatus consultum limitando o revocando i poteri conferiti.

Nel 23 a.C. fu conferita ad Augusto, la tribunicia potestas a vita (che secondo alcuni gli era stata attribuita già dal 28 a.C.), la quale divenne la vera base costituzionale del potere imperiale: comportava infatti l'inviolabilità della persona e il diritto di intervenire in tutti i rami della pubblica amministrazione, e questo senza i vincoli repubblicani della collegialità della carica e della sua durata annuale. Particolarmente significativo fu il diritto di veto, che garantì ad Augusto la facoltà di bloccare qualunque iniziativa legislativa che considerasse pericolosa per la propria autorità. Nello stesso anno l'imperium di cui già godeva divenne imperium proconsolare maius et infinitum, in modo da comprendere anche le province senatorie: tutte le forze armate dello Stato romano dipendevano ora da lui.

«Egli stesso [Augusto] fece voto di compiere ogni sforzo, affinché nessuno potesse rammaricarsi del nuovo stato di cose.»
(Svetonio,Augustus, 28)

E ancora gli furono conferite nuove onorificenze negli anni a venire. Nel 12 a.C., quando il Pontefice massimo Lepido morì, Ottaviano ne prese il titolo divenendo il capo religioso di Roma.

«[divenuto pontefice massimo] radunò tutte le profezie greche e latine che [...] erano tramandate tra il popolo, circa duemila, e le fece bruciare. Conservò solo i libri sibillini e, dopo un'attenta selezione, li pose in due armadi dorati ai piedi della statua di Apollo Palatino.»
(Svetonio,Augustus, 31.)

Nell'8 a.C. fu emanata la Lex Iulia maiestatis, con cui per la prima volta venne punita l'offesa alla "maestà" dell'imperatore, in seguito foriera di conseguenze negative per tutto il periodo successivo. E per finire, nel 2 a.C., anno dell'inaugurazione del tempio di Marte Ultore e del Foro di Augusto, gli fu conferito il titolo onorifico di "Padre della patria" (Pater Patriae).

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Il principato (23 a.C. - 14 d.C.)

L'ambizione di Augusto era quella di essere fondatore di un optimus status, facendo rivivere le più antiche tradizioni romane e nel contempo tenendo conto delle problematiche dei tempi. Il mantenimento formale delle forme repubblicane, nelle quali si inseriva il nuovo concetto della personale auctoritas del princeps (primo fra pari), permise di risolvere i conflitti per il potere vissuti nell'ultimo secolo della Repubblica. Egli non schiacciò affatto l'antica aristocrazia, ma le affiancò in una più vasta cerchia del privilegio, il ceto degli uomini d'affari e dei funzionari, organizzati nell'ordine equestre, i cui membri furono spesso utilizzati dall'imperatore per controllare l'attività degli organi repubblicani e per il governo delle province imperiali.

Ottaviano, una volta ricevuti i necessari poteri da parte di Senato e Popolo romano, cominciò ad assumere misure atte a dare all'Italia e alle Province il sospirato benessere dopo oltre un decennio di guerre civili: riordinò il cursus honorum delle magistrature repubblicane, ne creò di nuove (come la figura del curator o quella del praefectus Urbis), ripristinò la carica magistratuale del censore, aumentò il numero dei pretori e promosse leggi che frenavano il diffondersi del celibato e incoraggiavano la natalità, emanando la lex Iulia de Maritandis Ordinibus del 18 a.C. e la lex Papia Poppaea del 9 d.C. (a completamento della prima legge).

Politica interna


Politica sociale e di moralizzazione

I molti abusi che esistevano ancora dopo la fine della guerra civile, particolarmente pericolosi per l'ordine pubblico, vennero in gran parte ridimensionati dalla nuova politica autoritaria del princeps. In quel periodo, infatti, un gran numero di briganti si mostrava in pubblico con pugnale alla cintura, utilizzando il pretesto del doversi difendere; nelle campagne, poi, spesso i viaggiatori venivano sequestrati, senza alcuna distinzione fra uomini liberi e schiavi; numerose, infine, erano le associazioni criminali venutesi a creare. Augusto represse il brigantaggio mettendo posti di guardia nelle località più opportune, spesso facendo ispezionare luoghi ove si credeva vi fossero in corso sequestri, disciolse poi tutte le associazioni (collegia), ad eccezione di quelli più antichi.

Considerando importante conservare la purezza della razza romana, evitando potesse mescolarsi con sangue straniero e servile, fu molto restio nel concedere la cittadinanza romana, ponendo anche precise regole riguardo all'affrancamento. A Tiberio che gli chiedeva la cittadinanza per un suo cliente greco, rispose che l'avrebbe concessa se non gli avesse dimostrato i giusti i motivi della richiesta; la negò anche alla moglie Livia che la chiedeva per un gallo tributario. E così degli schiavi, una volta tenuti lontani dalla libertà parziale o totale, stabilì il loro numero, la condizione e la divisione in differenti categorie, in modo da stabilire chi potesse essere affrancato. Aggiunse, infine, che colui che fosse stato imprigionato o sottoposto a tortura non avrebbe mai potuto diventare un uomo libero.

Riorganizzò e ripulì l'ordine senatorio di quegli elementi giudicati deformi et incondita turba, come ci racconta Svetonio:

«Senatorum affluentem numerum deformi et incondita turba - erant enim super mille, et quidam indignissimi et post necem Caesaris per gratiam et praemium adlecti, quos orcinos vulgus vocabat.»

«Il numero dei senatori era costituito da una folla infame e rozza (erano infatti più di mille e alcuni completamente indegni, che fossero entrati, grazie a favori e alla corruzione, dopo la morte di Cesare e che il popolo definiva «del regno dei morti»).»

(Svetonio,Augustus, 35.)

Ridusse il numero dei senatori alla cifra di un tempo, pari a 600, e gli restituì la sua antica dignità attraverso due selezioni: la prima era generata dai senatori stessi, in quanto ognuno sceglieva un collega; la seconda era operata dallo stesso princeps e dal fedele Marco Vipsanio Agrippa. Svetonio racconta che in questa circostanza, mentre presiedeva le sedute del Senato, Augusto indossasse una corazza e tenesse alla cintura un pugnale, mentre dieci senatori, suoi amici fidati, selezionati tra i più robusti, circondavano il suo seggio. In questo periodo nessun senatore era ricevuto da solo e senza essere stato prima perquisito. Decise anche di creare, mediante estrazione a sorte semestrale, un gruppo di consiglieri con i quali studiare le questioni, prima di sottoporle all'intero Senato riunito in seduta plenaria. Sulle questioni importanti egli chiedeva un parere a suo piacere, in modo che ciascuno facesse attenzione a come si esprimeve e si trovasse sempre pronto, come se dovesse esprimere un parere e non come se dovesse semplicemente approvare. Elevò il censo senatoriale, portandolo da ottocentomila a un milione e duecentomila sesterzi, e diede la differenza ai senatori che non ne avevano abbastanza.

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Fece bruciare le liste dei vecchi debitori dell'erario, spesso utilizzate per accuse calunniose; a Roma lasciò ai proprietari del momento quei terreni che, in modo discutibile, la Res publica aveva ritenuto fossero suoi; fece distruggere i nomi di coloro che venivano costantemente accusati in modo sadico, senza che nessuno si lamentasse di loro, salvo i propri nemici; dispose inoltre che, qualora qualcuno avesse voluto nuovamente perseguitare costoro, avrebbe corso il rischio di essere a sua volta accusato e di subire la stessa pena.

Venne incrementato il numero dei patrizi e fu ordinato un censimento della popolazione, da cui risultò che gli abitanti di Roma sfioravano 1.000.000 di unità. Narrando dei propri donativi, Augusto rammenta che le elargizioni erano sempre dirette a più di 250.000 persone e di come in quattro occasioni egli avesse aiutato la tesoreria pubblica.

Politica religiosa

Riguardo invece alla politica religiosa, sappiamo che dopo il lungo periodo delle guerre civili, la crisi della religione romana, iniziata nella tarda età repubblicana, venne fermata in parte dagli interventi di Augusto, il quale

«...ripristinò alcune antiche tradizioni religiose che erano cadute in disuso, come l'augurio della Salute, la dignità del flamine diale, la cerimonia dei Lupercalia, i Ludi Saeculares e quelli Compitali. Vietò ai giovani imberbi di correre ai Lupercali e sia ai ragazzi, sia alle ragazze di partecipare alle rappresentazioni notturne dei Ludi Saeculares, senza essere accompagnati da un adulto della famiglia. Stabilì che i Lari Compitali fossero adornati di fiori due volte all'anno, in primavera ed estate.»
(Svetonio,Augustus, 31)

Ebbe il massimo rispetto per i culti religiosi stranieri, ma solo per quelli di antica tradizione. Disprezzò invece gli altri. Egli ricevette infatti l'iniziazione ad Atene. Quando più tardi si trovò a Roma, davanti al tribunale dove si trattava sulla questione relativa ai privilegi dei sacerdoti di Cerere ateniense, e venivano svelati alcuni dei suoi segreti, egli congedò il consiglio dei giudici ed i loro assistenti, preferendo seguire il dibattito da solo. Quando invece visitò l'Egitto, evitò di andare a vedere il bue Api, e si complimentò con il nipote Gaio Cesare, il quale passando per la Giudea non si era recato a Gerusalemme per farvi dei sacrifici.

Amministrazione della giustizia

Anche la giustizia ed il diritto romano vennero riformati. Augusto, infatti, per evitare che nessun delitto risultasse impunito o archiviato a causa di continui ritardi, dispose che per gli atti forensi fossero previsti più di trenta giorni. Alle tre decurie di giudici ne aggiunse una quarta, seppure di censo inferiore, chiamata «dei ducenari», con il compito di giudicare riguardo a importi inferiori. Fece sì che si potesse diventare giudici a trent'anni, ovvero cinque anni prima dei quanto era previsto in precedenza. E poiché molti cittadini si sottraevano alle funzioni giudiziarie, permise a ciascuna decuria, a turno, di andare in vacanza per un anno e che, contrariamente a quanto previsto in precedenza, si interrompessero i lavori in novembre e in dicembre. I processi in appello a Roma, vennero affidati ad un pretore urbano, quelli in provincia a consoli anziani, preposti dall'imperatore a questo genere di funzione.

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Lo stesso Augusto giudicava con assiduità e, qualche volta, anche di notte. Svetonio racconta che, quando non si sentiva bene, faceva portare la sua lettiga davanti al tribunale, mentre altre volte riceveva in casa da sdraiato sul suo letto. Emise sentenze con il massimo scrupolo, ma anche con estrema indulgenza. Svetonio racconta che quando testimoniava in tribunale, permetteva che lo interrogassero e lo contraddicessero con la più grande disponibilità e pazienza.

Il princeps ritoccò alcune leggi, altre le rifece completamente, come la legge sulle spese oppure quelle sugli adulteri (tra il 18 e 16 a.C.), la sodomia[non chiaro] (della quale egli stesso fu accusato, sembra ingiustamente), il broglio e il matrimonio tra gli ordini sociali. E poiché quest'ultima legge era stata rifatta con maggiore severità rispetto alle altre, molti protestarono, soprattutto quelli dell'ordine equestre, tanto che Augusto fu obbligato, per farla passare, a attenuare una parte delle sanzioni, permettendo una dilazione di tre anni e aumentando le ricompense. Egli, infatti, aveva ritenuto necessario assumere precisi provvedimenti per frenare il diffondersi del celibato e incoraggiare la natalità, emanando la Lex Iulia de Maritandis Ordinibus del 18 a.C. e la lex Papia Poppaea del 9 d.C. (quest'ultima a completamento della prima).

«Quando scoprì che la legge era aggirata, sia prendendo fidanzate troppo giovani, sia cambiando frequentemente la moglie, diminuì i tempi del fidanzamento e regolò i divorzi.»
(Svetonio,Augustus, 34)

In sintesi le ultime due leggi poco sopra citate, prevedevano la rimozione di tutte quelle restrizioni non necessarie che potessero limitare i matrimoni, l'uso del diritto di successione per favorire il matrimonio e la paternità, l'impulso dato alla natalità rivolto alle classi più abbienti, offrendo privilegi nella vita pubblica ai padri di famiglie numerose.

Amministrazione dell'Italia e di Roma

Augusto divise l'Italia in undici regioni arricchendola di nuovi centri. Svetonio e le Res Gestae Divi Augusti parlano della fondazione di ben 28 colonie. Riconobbe, in un certo qual modo, l'importanza di queste colonie, attribuendo diritti uguali a quelli di Roma, creando un modo differente di votare: permise ai decurioni delle colonie di votare, ciascuno nella propria città, per l'elezione dei magistrati di Roma, facendo pervenire il loro voto nell'Urbe, il giorno delle elezioni, con plico sigillato. Al fine poi di incoraggiare coloro che meritavano, oltre alle famiglie numerose, concedesse il grado equestre a chiunque lo chiedesse, anche dietro una sola raccomandazione ufficiale della città di ciascuno e quando visitava le regioni d'Italia, distribuiva mille sesterzi ciascuno a tutti i plebei che dimostravano di avere figli maschi o femmine.

Rispetto alle province fu soprattutto l'Italia ad essere privilegiata da Augusto, che vi costruì una fitta rete stradale ed abbellì le città dotandole di numerose strutture pubbliche (fori, templi, anfiteatri, teatri, terme..) e di uffici di raccolta tributari. In segno di riconoscimento, Svetonio racconta che:

«Alcune città d'Italia stabilirono l'inizio dell'anno nel giorno in cui Augusto le aveva visitate per la prima volta.»
(Svetonio,Augustus, 59.)

L'economia italica era florida: agricoltura, artigianato e industria ebbero una notevole crescita, che permise l'esportazione dei beni verso le province. L'incremento demografico fu rilevato da Augusto tramite tre censimenti (il primo ed il terzo con un collega): i cittadini maschi furono 4.063.000 nel 28 a.C., 4.233.000 nell'8 a.C. e 4.937.000 nel 14 d.C. Se si considerano anche le donne e i bambini la popolazione totale nell'Italia del I secolo d.C. può essere stimata sui 10 milioni di abitanti circa. Migliorò infine la situazione di Roma, capitale dell'impero.

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Fece, infatti, di Roma una monumentale città di marmo e istituì due curatores aedium sacrarum et operum locorumque publicorum per preservare i templi e gli edifici pubblici; aumentò l'approvvigionamento idrico con la costruzione di due nuovi acquedotti e creando un corpo di tre curatores aquarum per l'approvvigionamento idrico; la divise in 14 regiones e quartieri (vicus) per meglio amministrarla oltre ad istituire cinque curatores riparum et alvei Tiberis, per proteggere Roma da eventuali inondazioni; curò personalmente gli approvvigionamenti di cibo necessari alla popolazione della capitale, con la creazione del praefectus annonae (di rango equestre) e di due praefecti frumenti dandi (di rango senatorio) per somministrare i sussidi; incrementò, infine, il livello di sicurezza cittadina ponendo a salvaguardia dell'Urbe tre nuove prefetture: la praefectura vigilum, affidata ad un prefetto (di rango equestre), a capo di sette coorti di vigili (di ex-schiavi, affrancati) per far fronte agli incendi di Roma, la praefectura Urbi, affidata ad un prefetto di estrazione senatoria o consolare, ai cui ordini erano poste tre coorti urbane (di circa 1.000 uomini ciascuna) al fine di mantenere l'ordine pubblico, la Guardia pretoriana (praefectura Praetorii), affidata ad un prefetto di rango equestre a capo di nove coorti, quale guardia personale del princeps.

Opere pubbliche

Sotto il suo governo vennero spese ingenti somme di denaro per fornire Roma di riserve di grano, acqua e di corpi di polizia, e per l'erezione o il restauro di pubblici edifici.

«Roma non era all'altezza della grandiosità dell'Impero ed era esposta alle inondazioni e agli incendi, ma egli l'abbellì a tal punto che giustamente si vantò di lasciare di marmo la città che aveva trovato fatta di mattoni. Oltre a questo la rese sicura anche per il futuro, per quanto poté provvedere per i posteri.»
(Svetonio,Augustus, 28)

Numerosi furono, infatti, gli edifici, le opere pubbliche e i monumenti celebrativi costruiti o restaurati durante il suo principato:

«[...] spesso esortò anche i privati affinché, ognuno secondo le proprie possibilità, adornasse la città con nuovi templi oppure restaurando e arricchendo quelli già esistenti.»
(Svetonio,Augustus, 29)
  • la ristrutturazione della Curia (sede del senato) e del Tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, dove depose un bottino composto da sedicimila libbre d'oro, con pietre preziose e perle per un valore di cinquanta milioni di sesterzi;
  • la costruzione di un nuovo foro accanto a quello di Gaio Giulio Cesare (il Foro di Augusto), che includeva anche il tempio di Marte Ultore;
  • numerosi nuovi templi, come quelli dedicati ad Apollo sul Palatino (con la vicina biblioteca Apollinis, greca e latina e alcuni tripodi d'oro) e al padre adottivo, il Divo Giulio, oltre al Pantheon costruito tra il 27-25 a.C.), al Teatro di Marcello (terminato nell'11 a.C.), alle Terme di Agrippa, agli acquedotti Aqua Iulia (costruito da Marco Vipsanio Agrippa nel 33 a.C.), Aqua Virgo (del 19 a.C.) e Aqua Alsietina (del 2 a.C.), ad un nuovo ponte sul Tevere fatto costruire da Agrippa;
  • la ricostruzione della Basilica Giulia (dedicata ai nipoti Gaio e Lucio) nel 12 d.C., ora ampliata dopo un incendio;
  • alcuni portici, uno dedicato alla moglie Livia ed un secondo alla sorella Ottavia;
  • il permesso di costruire a privati, come il primo anfiteatro in pietra a Statilio Tauro, il Teatro di Balbo, il Tempio di Ercole delle Muse a Lucio Marcio Filippo, il tempio di Diana a Lucio Cornificio, l'atrio delle libertà a Gaio Asinio Pollione e il tempio di Saturno a Lucio Munazio Planco;
  • i monumenti celebrativi come l'Ara Pacis (a fianco dell'immensa meridiana del campo Marzio), un arco trionfale nel Foro Romano, un altro arco trionfale dedicato ai nipoti Gaio e Lucio Cesari, i rostri apposti nel Foro Romano dopo la vittoria su Marco Antonio nella battaglia di Azio, un Mausoleo, due enormi obelischi egiziani;
  • il tempio di Giove Tonante sul Campidoglio;
  • un luogo adatto per le battaglie navali, scavando il terreno nei pressi del Tevere (Naumachia Augusti), dove ora si trova il bosco dei Cesari;
  • altri numerosissimi monumenti in tutte le province imperiali a partire dal vicino porto di Roma, Ostia.

E sempre Svetonio ci ricorda che Augusto:

«E così, non solo restaurò gli edifici che ogni condottiero aveva edificato, mantenendo le iscrizioni [originarie], ma nei due colonnati del suo foro collocò le statue di tutti loro, con le insegne dei trionfi conseguiti, e in un editto proclamò: aveva escogitato ciò, lui stesso mentre era in vita, affinché i principi successivi fossero costretti dai cittadini ad ispirarsi alla vita di loro e dello stesso Augusto come ad un modello.»
(Svetonio,Augustus, 31)

Fece, inoltre, allargare e pulire il letto del fiume Tevere, da troppo tempo ricolmo di detriti, per evitare nuove e pericolose inondazioni; Oltre a ciò, onde evitare i danni dei frequenti incendi, Augusto intervenne riducendo l'altezza delle nuove costruzioni, proibendo di edificare lungo le vie pubbliche ad un'altezza superiore ai 70 piedi. Svetonio racconta infine che:

«Fece anche trasportare fuori dalla curia, dove Cesare era stato ucciso, la statua di Pompeo che mise di fronte al cortile del suo teatro, in alto ad un arco di marmo.»
(Svetonio,Augustus, 31)
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Amministrazione provinciale

«Di alcune province cambiò condizione, e visitò spesso la maggior parte sia delle une sia delle altre. Certe città, per altro federate, ma che la dissolutezza stava mandando in rovina, furono private della loro libertà, altre, sotto il peso dei debiti, furono aiutate, altre ancora, distrutte dal terremoto, furono aiutate nella ricostruzione, e quelle che avevano dei meriti nei confronti del popolo romano, gli venne donato il diritto di cittadinanza o quello dei Latini. E non mi sembra che una sola provincia non sia stata dallo stesso visitata, ad eccezione dell'Africa e della Sardegna.»
(Svetonio,Augustus, 47.)
«La maggior parte delle province dedicò ad Augusto non solo templi e altari, ma anche giochi ogni cinque anni, [celebrati] quasi in ogni città.»
(Svetonio,Augustus, 59.)

Nel 27 a.C., riorganizzò le province da un punto di vista fiscale e amministrativo, delegando l'amministrazione delle province nel seguente modo:

  • Per sé stesso, tenne le cosiddette province non pacificate (e più importanti, potenti), ovvero quelle limitanee, in cui erano stanziate le legioni, con il fine di giustificare il potere sull'esercito. Tali province, poi dette imperiali, o provinciae Caesaris, furono affidate ai legati Augusti pro praetore di rango senatorio, scelti tra ex-consoli ed ex-pretori, con legati legionari, prefetti e tribuni come subalterni. Faceva eccezione l'Egitto, in cui venne riconfermato il praefectus Alexandreae et Aegypti, un membro del ceto equestre munito di imperium. Per l'aspetto tributario, tali province erano affidate ad agenti del principe, cavalieri, ma anche liberti, col titolo di procuratores Augusti; le entrate andavano a confluire sulla neonata cassa del principe, il fiscus.
  • Le rimanenti province, quelle di più antica costituzione (pacate) e prive di stanziamenti legionari (tranne che per la provincia d'Africa), vennero lasciate al governo delle promagistrature tradizionali, affidandole a proconsules, estratti a sorte secondo il costume repubblicano, tra ex-consoli o ex-pretori a seconda dell'importanza della provincia. Tali province presero poi il nome di provinciae Populi Romani. I tributi venivano raccolti dai quaestores e confluivano nell'aerarium, l'antica cassa dello Stato romano.
  • Altri distretti, di minori dimensioni e importanza, non elevati al rango di provincia e nei quali erano stanziate solo truppe ausiliare, furono affidati a ufficiali, col titolo di prefetti civitatum o, semplicemente, prefetti. Questi distretti dipendevano dal legato della provincia (o dell'esercito) più vicino: così la prefettura di Giudea dipendeva dal legato di Siria e le prefetture alpine dal legato dell'esercito germanico.

Creò, inoltre, nuovi e numerosi municipi e colonie, al fine di portare avanti l'opera di romanizzazione nelle province.

Proibì che si inviassero magistrati nelle province, dopo che questi avessero deposto il loro incarico; stabilì che fosse assegnata un'indennità fissa ai proconsoli per i loro muli e tende, che normalmente erano aggiudicati pubblicamente.

E poiché sapeva che molti proconsoli erano soliti innalzargli e dedicagli nuovi templi, non accettò che in nessuna provincia venissero edificati senza associare al suo nome quello della dea Roma. A Roma rifiutò con grande determinazione questo onore. Creò inoltre il cosiddetto cursus publicus, vale a dire il servizio imperiale di posta che assicurava gli scambi all'interno dell'Impero romano.

«Affinché si potesse facilmente e più rapidamente annunciargli e portare a sua conoscenza ciò che succedeva in ciascuna provincia, fece piazzare, di distanza in distanza, sulle strade strategiche, dapprima dei giovani a piccoli intervalli, poi delle vetture. Il secondo procedimento gli parve più pratico, perché lo stesso portatore del dispaccio faceva tutto il tragitto e si poteva, inoltre, interrogarlo in caso di bisogno.»
(Svetonio,Augustus, 49.)
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Amministrazione finanziaria

Augusto riorganizzò l'amministrazione finanziaria dello Stato romano. Attribuì infatti un salario e una gratifica di congedo a tutti i soldati dell'esercito imperiale (sia ai legionari che agli ausiliari); assegnò un salario (salaria) per il servizio pubblico per tutti i rappresentanti del senato, per poi estenderlo gradualmente anche alle magistrature ordinarie. La magistratura di tipo repubblicano fu retribuita con indennizzi e cibaria, piuttosto che con salaria. Costituì inoltre il fiscus (ovvero la cassa delle entrate dell'imperatore), accanto al vecchio aerarium, che rimase la cassa principale (affidata dal 23 a.C. a due pretori, non più a due questori), ma Augusto fu autorizzato ad attingere da esso le somme necessarie per tutte le funzioni amministrative e militari. L'imperatore, di fatto, poteva dirigere la politica economica di tutto l'impero e assicurarsi che le risorse fossero equamente distribuite in modo che le popolazioni sottomesse potessero considerare il governo di Roma una benedizione, non una condanna. Creò infine un aerarium militare per i compensi da dare ai veterani.

Promosse, quindi, la rinascita economica, del commercio e dell'industria attraverso l'unificazione dell'area mediterranea, debellando completamente la pirateria e migliorando la sicurezza lungo le frontiere e internamente alle Province. Creò una fitta rete stradale con un ottimo livello di manutenzione (affidandole alla cura dei suoi generali, che dovettero farle ripavimentare con l'argento dei loro bottini), istituendo numerosi curatores viarum per la manutenzione delle strade in Italia e nelle Province; nuovi porti commerciali e nuove attrezzature portuali come moli, banchine, fari; finanziò l'escavazione di canali e nuove esplorazioni (a volte anche militari oltreché commerciali) in terre lontane come l'Etiopia, la penisola arabica (fino all'attuale Yemen), le terre dei Garamanti, dei Germani del fiume Elba e l'India. In questa maniera restaurò la pax romana in tutto l'impero.

«Il tempio di Giano Quirino che, dalla fondazione di Roma, non era stato chiuso che due volte prima di lui, sotto il suo principato fu chiuso tre volte, in uno spazio di tempo molto più breve, poiché la pace si trovò stabilita in terra e in mare.»
(Svetonio,Augustus, 22)

Inoltre, nel 23-15 a.C., riordinò il sistema monetario, fissando i cambi tra la moneta aurea (1/40 di libbra) equivalente a 25 denari d'argento e a 100 sesterzi di rame, che restò praticamente immutato per due secoli.

Ed infine, sappiamo che concesse numerosi congiaria, vale a dire distribuzioni di grano gratuite alla popolazione di Roma, o prestiti a tassi agevolati, come ci tramanda Svetonio:

«Fece il censimento del popolo per quartieri e affinché i plebei non fossero allontanati dalle loro occupazioni troppo spesso a causa della distribuzione di grano, assegnò tre volte all'anno tessere per l'approvvigionamento di quattro mesi; ma poiché essi desideravano tornare alla vecchia abitudine, concesse nuovamente che ciascuno prelevasse ogni mese ciò che gli era dovuto.»
(Svetonio,Augustus, 40.)
«In più occasioni esibì la sua liberalità verso tutti gli ordini sociali. Infatti quando si trasportò a Roma, per il trionfo alessandrino, il tesoro dei re egiziani, ne derivò una così grande abbondanza di denaro che, diminuito l’interesse del denaro prestato, crebbe il prezzo di molti terreni e, in seguito, ogni volta che dalle proprietà confiscate facevano abbondare il denaro, era consuetudine [di Augusto] prestarlo senza interesse, per un tempo determinato, a coloro che potevano rispondere del doppio. [...] Fece frequenti distribuzioni di denaro al popolo, ma ogni volta per somme differenti: una volta 400, un'altra 300, qualche volta anche per 250 sesterzi a testa. E non escluse neppure i bambini più piccoli, sebbene non fosse consuetudine che ricevessero alcunché prima degli 11 anni.»
(Svetonio,Augustus, 41)

Ecco nel dettaglio come ci vengono raccontate dallo stesso Augusto nelle sue Res Gestae:

«Alla plebe di Roma pagai in contanti a testa trecento sesterzi in conformità alle disposizioni testamentarie di mio padre, e a mio nome diedi quattrocento sesterzi a ciascun provenienti dalla vendita del bottino delle guerre, quando ero console per la quinta volta; nuovamente poi, durante il mio decimo consolato, con i miei beni pagai quattrocento sesterzi di congiario a testa, e console per l'undicesima volta calcolai e assegnai dodici distribuzioni di grano, avendo acquistato a mie spese il grano in grande quantità e, quando rivestivo la potestà tribunizia per la dodicesima volta, diedi per la terza volta quattrocento nummi a testa. Questi miei congiari non pervennero mai a meno di duecentocinquantamila uomini. Quando rivestivo la potestà tribunizia per la diciottesima volta ed ero console per la dodicesima volta diedi sessanta denari a testa a trecentoventimila appartenenti alla plebe urbana. E ai coloni che erano stati miei soldati, quando ero console per la quinta volta, distribuii a testa mille nummi dalla vendita del bottino di guerra; nelle colonie ricevettero questo congiario del trionfo circa centoventimila uomini. Console per la tredicesima volta diedi sessanta denari alla plebe che allora riceveva frumento pubblico; furono poco più di duecentomila uomini.»
(Augusto, Res Gestae Divi Augusti, 15.)

Quando poi il popolo gli richiese un congiarium che aveva promesso, rispose che era un uomo di parola. Quando invece ne sollecitò uno che non si era impegnato a distribuire, denunciò con un editto la menzogna, dichiarando che, sebbene avesse avuto in animo di farlo, non l'avrebbe fatto. In un'altra circostanza, accortosi che all'annuncio di un nuovo congiarium molti avevano affrancato i loro schiavi, dichiarò che lo avrebbero ricevuto solo quelli ai quali era stato promesso, e diede meno di quanto aveva stabilito, affinché la somma stanziata risultasse sufficiente. E quando, durante una terribile carestia, Augusto espulse da Roma tutti coloro che dovevano essere venduti, le famiglie dei gladiatori, gli stranieri, ad eccezione dei medici, dei precettori e di una parte dei servi, finalmente migliorarono i vettovagliamenti, tanto che lo stesso princeps pensò di sopprimere definitivamente la distribuzione gratuita di frumento (frumentationes publicas), perché la fiducia che il popolo aveva in esse, portava solo ad abbandonare la cultura della coltivazione dei campi. Augusto però non insistette, perché era certo di doverla ripristinare un giorno per avere il consenso del popolo romano. Da allora però, regolò le distribuzioni in modo da difendere gli interessi degli agricoltori e dei commercianti, tanto quanto quelli del popolo.

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Caratteristiche demografiche, economiche e sociali dell'Impero romano sotto Augusto

Al tempo di Augusto l'Impero romano dominava su una popolazione di circa 55 milioni di persone (di cui 8-10 in Italia) su una superficie di circa 3,3 milioni di chilometri quadrati. Rispetto ai tempi moderni, la densità era piuttosto bassa: 17 abitanti per chilometro quadrato, i tassi di mortalità e natalità molto elevati e la vita media non superava i 20 anni. Solo un decimo della sua popolazione viveva nelle sue 3 000 città, più in particolare: 3 milioni circa abitavano nelle quattro città più grandi (Roma, Cartagine, Antiochia e Alessandria), di questi almeno un milione abitava nell'Urbe. Secondo calcoli approssimativi il prodotto interno lordo di quell'Impero era a quell'epoca attorno ai 20 miliardi di sesterzi e caratterizzato da vertiginose concentrazioni di ricchezze. Il reddito annuale dell'imperatore era attorno ai 15 milioni di sesterzi, quello dei 600 senatori ammontava a circa 100 milioni (0,5 per cento del Pil), il 3 per cento dei percettori di redditi godeva del 25 per cento delle ricchezze prodotte. L'Italia, centro dell'Impero augusteo, godeva di una posizione privilegiata: grazie alle nuove conquiste di Augusto poteva disporre di nuovi grandi mercati di approvvigionamento (grano, in primo luogo, proveniente dalla Sicilia, dall'Africa, dall'Egitto) e di nuovi mercati di sbocco per le proprie esportazioni di vino ed olio; le terre confiscate alle popolazioni sottomesse erano immense e dalle province arrivavano tributi in moneta e in natura (bottini di guerra, milioni di schiavi, tonnellate d'oro).

Nuovi impulsi culturali del circolo letterario di Mecenate

Allo sforzo politico di Augusto si affiancò l'elaborazione in tutti i campi di una nuova cultura, di impronta classicistica, che fondesse gli elementi tradizionali in nuove forme consone ai tempi. Poeti e letterati contribuirono nell'essere portavoci del programma civico e politico del princeps; successivamente subentrò una fase dove le energie spirituali andarono spegnendosi e dove prevalse una letteratura accademica, intesa come mero esercizio retorico, priva di quei contenuti morali e civili necessari.

Augusto si avvalse dell'aiuto dei letterati dell'epoca per rielaborare il mito delle origini di Roma, andando a prefigurare una nuova età dell'oro che trovò come principali interpreti, autori come Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, Properzio e Vario Rufo, facenti parte del cosiddetto "circolo letterario di Mecenate". Orazio difese la sua autonomia intellettuale, dalle insinuazioni malevole di coloro che lo ritenevano un cortigiano di Ottaviano, preoccupato, come gli altri poeti del "circolo", solo di fare carriera:

«Non viviamo lì nel modo in cui tu pensi. Luogo più puro di questo non esiste, né più distante da questo genere di intrighi. Niente mi interessa che uno sia più ricco o colto. Qui ciascuno ha il suo ruolo.»
(Orazio, Le Satire, I, 9, 48-52)

Vero è che Mecenate, spesso stimolava i poeti a comporre opere nel modo più elevato possibile:

«Frattanto occupiamoci dei boschi e delle driadi,
di gole selvagge, malgrado il tuo non lieve volere, o Mecenate:
senza di te nulla di nobile la mente può concepire. Presto!
Togliamo gli indugi. [...]
Presto mi metterò a narrare le grandi battaglie
di Cesare Augusto, diffondendo il suo nome per tanti anni
quanti ne distano da Cesare ai suoi discendenti della stirpe di Titone.»
(Virgilio, Georgiche, II, 40-48)

A fianco, vi era poi un altro circolo, quello "di Messalla", che ruotava attorno alla figura aristocratica di Marco Valerio Messalla Corvino, e che raccoglieva poeti di ispirazione bucolica ed elegiaca, in antitesi con gli interessi civili dei poeti di Mecenate. Di questo secondo circolo facevano parte Tibullo, Ligdamo e la poetessa Sulpicia; egli era legato anche da amicizia con Orazio e Ovidio. Messalla a suo tempo era stato un valoroso generale e collaboratore di Ottaviano, che si ritirò a vita privata dopo il 27 a.C.. Questo circolo, in antitesi con quello di Mecenate, rinunciò all'impegno morale e civico, a favore di un'ispirazione idilliaca, agreste ed elegiaca.

Altro personaggio autorevole che, fin dai tempi delle guerra civile tra Ottaviano e Antonio, diede nuovi impulsi alla cultura del tempo, fu Gaio Asinio Pollione, il quale creò per primo una biblioteca pubblica; restaurò in forme grandiose l'Atrium Libertatis ed introdusse la pratica delle recitationes, ovvero della lettura di prosa e poesia in pubblico, in apposite sale davanti ad amici e invitati (soprattutto presso la nobilitas romana). Uomo politico del partito cesariano, ebbe attorno al 40 a.C. un momento di grande fortuna, quando Virgilio gli dedicò la quarta ecloga. Più tardi Ottaviano lo mise da parte nella vita politica, forse perché anticonformista e contrario a chi stava limitando la libertà, tanto da portarlo a dedicarsi all'attività letteraria. Compose una storia delle guerre civili, che trattò con grande franchezza, lontano da stili retorici o abbellimenti moralistici.

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L'età di Augusto è considerata uno fra i più importanti e fiorenti periodi della storia della letteratura mondiale per numero di ingegni letterari, dove i principi programmatici e politici di Augusto erano appoggiati dalle stesse aspirazioni degli uomini di cultura del tempo. Del resto la politica a favore del primato dell'Italia sulle province, la rivalutazione delle antiche tradizioni, accanto a temi come la santità della famiglia, dei costumi, il ritorno alla terra e la missione pacificatrice e aggregante di Roma nei confronti degli altri popoli conquistati, furono temi cari anche ai letterati di quell'epoca.

I tempi erano ormai maturi perché la letteratura latina sfidasse quella greca, che allora veniva considerata insuperabile. Nella generazione successiva, sotto il principato di Augusto, fiorirono i maggiori poeti di Roma: Orazio, che primeggiò nella satira e nella lirica, emulava i lirici come Pindaro e Alceo, Virgilio, che si distinse nel genere bucolico, nella poesia didascalica e nell'epica, rivaleggiava con Teocrito, Esiodo e addirittura Omero; e poi ancora Ovidio, maestro del metro elegiaco, e Tito Livio nella storiografia.

Lo stesso Augusto fu un letterato dalle molteplici capacità: scrisse in prosa e in versi, dalle tragedie agli epigrammi fino alle opere storiche. Coltivò l'eloquenza fin dalla prima giovinezza, con grande passione e impegno. Di lui ci rimane il resoconto della sua opera politica a favore del popolo e della repubblica romana (Res Gestae Divi Augusti), dove viene messo in evidenza il suo rifiuto di contrastare le regole tradizionali dello Stato repubblicano e di assumere poteri arbitrari in modo illegittimo. Svetonio aggiunge che quando prendeva la parola, che fosse in Senato, davanti al popolo o davanti ai suoi soldati, aveva sempre pronto un discorso ben meditato e scritto, sebbene non gli mancasse la capacità di improvvisare. Il motivo sembra fosse che egli voleva evitare di trovarsi esposto agli scherzi della memoria oppure a perdere tempo, dovendosi ricordare ogni passaggio del suo discorso. Capitava spesso che scrivesse le conversazioni più importanti comprese quelle con la moglie Livia, tanto da scorrere i suoi appunti mentre le parlava. Utilizzava un tono dolce, lavorando spesso con un maestro di dizione e, quando era colpito da raucedine, parlava al popolo attraverso un portavoce.

Compose molte opere di prosa ed eloquenza di vario genere, alcune delle quali lesse nella schiera dei suoi familiari, quasi recitasse in un auditorio. Così ad esempio recitò le «Risposte a Bruto su Catone». Recitò pure le «Esortazioni alla Filosofia», oltre a «Sulla sua vita» che scrisse in tredici libri, arrivando fino alla guerra dei Cantabri. Si occupò anche di poesia. Rimane un suo libro scritto in esametri, il cui titolo e argomento è «La Sicilia», e un altro piccolo di «Epigrammi» che meditava quando faceva il bagno. Iniziò con grande entusiasmo una tragedia, che poi però distrusse e quando gli amici gli chiesero che cosa fosse accaduto al suo «Aiace» rispose che si era gettato su una spugna. Si dedicò anche allo studio delle discipline greche fin dalla giovinezza, avendo avuto come maestro di eloquenza Apollodoro di Pergamo, che aveva condotto con sé, ormai anziano, da Roma ad Apollonia, dove apprese della morte di Gaio Giulio Cesare.

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Riorganizzazione dell'esercito

Augusto riorganizzò l'esercito legionario e ausiliario, distribuendolo nella province. Introdusse un esercito permanente di volontari, disposti a servire inizialmente per sedici anni, e poi per vent'anni dal 6, unicamente dipendente da lui; istituì un cursus honorum anche per coloro che aspiravano a ricoprire i più alti incarichi nella gerarchia dell'esercito, con l'introduzione di generali professionisti, non più comandanti inesperti mandati allo sbaraglio nelle province di confine; creò l'aerarium militare.

«In campo militare introdusse molte nuove riforme e ristabilì anche alcune antiche usanze. Mantenne la più severa disciplina: dove i suoi legati non ottennero, se non a fatica e solo durante i mesi invernali, il permesso di andare a trovare le loro mogli. [...] Congedò con ignominia l'intera X legione, poiché ubbidiva con una certa aria di rivolta; allo stesso modo lasciò libere altre, che reclamavano il congedo con esagerata insistenza senza dare le dovute ricompense per il servizio prestato. Se alcune coorti risultava si fossero ritirate durante la battaglia, ordinava la loro la decimazione e nutrire con orzo. Quando i centurioni abbandonavano il loro posto di comando erano messi a morte come semplici soldati, mentre per altre colpe faceva infliggere pene infamanti, come il rimanere tutto il giorno davanti alla tenda del proprio generale, vestito con una semplice tunica, senza cintura, tenendo in mano a volte una pertica lunga dieci piedi, oppure una zolla erbosa.»
(Svetonio,Augustus, 24)

Delle legioni sopravvissute alla guerra civile, 28 rimasero dopo Azio, e 25 dopo la disfatta di Teutoburgo; vennero istituite le ali di cavalleria e le coorti di fanteria (o misti) di auxilia provinciali, traendoli da volontari non-cittadini, desiderosi di diventare cittadini romani al termine della ferma militare (della durata di 20-25 anni). In totale erano circa 340000 uomini, di cui 140000 servivano nelle legioni. Furono formate anche le coorti pretoriane e urbane (di Roma, Cartagine, Lione e d'Italia) e dei Vigili di Roma; la flotta imperiale divisa in squadre a Ravenna, Miseno (in precedenza posta a Portus Iulius presso Pozzuoli) e Forum Iulii, e quelle provinciali di Siria e Egitto, e le flottiglie fluviali su Reno, Danubio e Sava.

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Politica estera

Quasi a dispetto dell'indole apparentemente pacifica di Augusto, il suo principato fu più travagliato da guerre di quanto non lo siano stati quelli della maggior parte dei suoi successori. Solo Traiano e Marco Aurelio si trovarono a lottare contemporaneamente su più fronti, al pari di Augusto. Sotto Augusto, infatti, furono coinvolte quasi tutte le frontiere, dall'oceano settentrionale fino alle rive del Ponto, dalle montagne della Cantabria fino al deserto dell'Etiopia, in un piano strategico preordinato che prevedeva il completamento delle conquiste lungo l'intero bacino del Mediterraneo e in Europa, con lo spostamento dei confini più a nord lungo il Danubio e più ad est lungo l'Elba (in sostituzione del Reno).

Le campagne di Augusto furono effettuate con il fine di consolidare le conquiste disorganiche dell'età repubblicana, le quali rendevano indispensabili numerose annessioni di nuovi territori. Mentre l'Oriente poté rimanere più o meno come Antonio e Pompeo lo avevano lasciato, in Europa fra il Reno e il Mar Nero fu necessaria una nuova riorganizzazione territoriale in modo da garantire una stabilità interna e, contemporaneamente, frontiere più difendibili.

Gli storici contemporanei si sono spesso trovati d'accordo nel negare le qualità militari di Augusto, insistendo sul fatto che raramente egli andò personalmente sui campi di battaglia. Aurelio Vittore, ricordando una tradizione antica, diede di questo principe un ritratto più lusinghiero. Egli si dimostrò, invece un abilissimo uomo politico e geniale stratega, forse l'esatto contrario di ciò che fu Annibale: validissimo generale e tattico, ma con una dubbia visione politico-strategica del suo tempo, accecata dall'odio per i Romani.

Prima di tutto, Augusto in persona si dedicò, con l'aiuto di Agrippa, a portare a compimento una volta per tutte la sottomissione di quelle "aree interne" all'impero non ancora conquistate completamente, a partire dalla parte nord-ovest della penisola iberica, che ormai creava problemi da decenni e che fu condotta sotto il dominio romano, dopo una serie di pesanti campagne militari in Cantabria durate 10 anni (dal 29 al 19 a.C.). In seguito venne conquistato l'interno arco alpino, per dare maggior sicurezza interna ai valichi e alle relazioni fra Gallia e Italia. Le azioni nell'area furono numerose e spesso combinate su più fronti. I figliastri di Augusto, Druso e Tiberio, nel 15 a.C., sottomisero la Rezia, Vindelicia e Vallis Poenina, con un'operazione "a tenaglia", il primo proveniente dal Brennero e il secondo dalla Gallia.

Ma fu la frontiera dell'Europa continentale che preoccupò Augusto più di ogni altro settore strategico. Essa comprendeva due settori principali: quello danubiano e quello renano. Dal 29 al 19 a.C. si procedette ad azioni combinate insieme ai re "clienti" traci, contro le popolazioni pannoniche, mesie, sarmatiche, getiche e bastarne fino ai confini macedoni. Il primo ad intraprendere campagne nell'area balcanica fu il proconsole di Macedonia, Marco Licinio Crasso, in quale batté ripetutamente le popolazioni di Mesi, Triballi, Geti e Daci (nel 29 e 28 a.C.). A partire poi dal 14 al 9 a.C. i legati di Dalmazia e Macedonia, sotto l'alto comando prima di Agrippa e poi di Tiberio, domarono Scordisci (sottomessi da Tiberio nel 12 a.C.), Dalmati e Pannoni e respinsero le scorrerie di Bastarni, Sarmati e Daci d'oltre Danubio, mentre Pannonia e Dalmazia furono finalmente condotte sotto il dominio romano. Fu solo in seguito alla soppressione della rivolta durata per ben tre anni nell'area dell'Illirico romano (dal 6 al 9), che Tiberio poté fissare definitivamente il confine al fiume Drava.

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Le popolazioni germaniche avevano più volte tentato di passare il Reno: nel 38 a.C. (anno in cui gli alleati germani, Ubi, furono trasferiti in territorio romano) e nel 29 a.C. i Suebi, mentre nel 17 a.C. i Sigambri, insieme a Usipeti e Tencteri (clades lolliana). Augusto ritenne fosse giunto il momento di annettere la Germania, come aveva fatto suo padre Gaio Giulio Cesare con la Gallia. Desiderava portare i confini dell'Impero romano più ad est, dal fiume Reno al fiume Elba. Il motivo era di ordine prettamente strategico, più che di natura economico-commerciale. Si trattava infatti di territori acquitrinosi e ricoperti da interminabili foreste ma il fiume Elba avrebbe ridotto notevolmente i confini esterni dell'impero.

Toccò al figliastro di Augusto, Druso maggiore, il gravoso compito di operare in Germania. Le campagne che si susseguirono furono numerose, discontinue, e durarono per circa un ventennio dal 12 a.C. al 6 d.C. portando alla costituzione della nuova provincia di Germania con l'insediamento di numerose installazioni militari a sua difesa. Tutti i territori conquistati in questo ventennio furono però definitivamente compromessi quando nel 7 Augusto inviò in Germania Publio Quintilio Varo, sprovvisto di doti diplomatiche e militari, oltreché ignaro delle genti e dei luoghi. Nel 9 un esercito di 20.000 uomini composto da tre legioni venne massacrato nella selva di Teutoburgo, portando alla definitiva perdita di tutta la zona tra il Reno e l'Elba.

La presenza di Augusto in Oriente subito dopo la battaglia di Azio, nel 30-29 a.C. e dal 22 al 19 a.C., oltre a quella di Agrippa fra il 23-21 a.C. e ancora tra il 16-13 a.C., dimostrava l'importanza di questo settore strategico. Fu necessario raggiungere un modus vivendi con la Partia, l'unica potenza in grado di creare problemi a Roma in Asia Minore. Per questi motivi la politica di Augusto si differenziò in base a due aree strategiche dell'Oriente antico.

Ad occidente dell'Eufrate, dove Augusto provò ad inglobare alcuni stati vassalli, trasformandoli in province, come la Galizia di Aminta nel 25 a.C., o la Giudea di Erode Archelao nel 6; rafforzò vecchie alleanze con re locali, divenuti "re clienti di Roma", come accadde ad Archelao, re di Cappadocia, ad Asandro re del Bosforo Cimmerio, e a Polemone I re del Ponto, o ai sovrani di Emesa e Iturea.

Ad oriente dell'Eufrate, in Armenia, Partia e Media, Augusto ebbe come obbiettivo quello di ottenere la maggiore ingerenza politica senza intervenire con dispendiose azioni militari. Ottaviano mirò infatti a risolvere il conflitto con i Parti in modo diplomatico, con la restituzione nel 20 a.C., da parte del re parto Fraate IV, delle insegne perdute da Crasso nella battaglia di Carre del 53 a.C. Augusto avrebbe potuto rivolgersi contro la Partia per vendicare le sconfitte subite da Crasso e da Antonio, al contrario ritenne invece possibile una coesistenza pacifica dei due imperi, con l'Eufrate come confine per le reciproche aree di influenza. Di fatto entrambi gli imperi avevano più da perdere da una sconfitta, di quanto potessero realisticamente sperare di guadagnare da una vittoria. Infatti, durante tutto il suo lungo principato, Augusto concentrò i suoi principali sforzi militari in Europa. Il punto cruciale in Oriente era, però, costituito dal Regno d'Armenia che, a causa della sua posizione geografica, era da un cinquantennio oggetto di contesa fra Roma e la Partia. Egli mirò a fare dell'Armenia uno Stato-cuscinetto romano, con l'insediamento di un re gradito a Roma, e se necessario imposto con la forza delle armi, come avvenne nel 2 d.C. quando, di fronte ad una possibile invasione romana dell'Armenia, Fraate V riconobbe la preminenza romana davanti a Gaio Cesare, mandato in missione da Augusto.

La frontiera meridionale africana, per finire, poneva problemi diversi nei suoi settori orientale e occidentale.

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Ad oriente, dopo la conquista nel 30 a.C., l'Egitto divenne la prima provincia imperiale, retta da un prefetto di rango equestre, il prefetto d'Egitto, a cui Ottaviano aveva delegato il proprio imperium sul paese, con ben tre legioni di stanza (III Cyrenaica, VI Ferrata e XXII Deiotariana). L'Egitto costituì negli anni seguenti una base di partenza strategica per spedizioni lontane; il primo prefetto, Cornelio Gallo, dovette reprimere un'insurrezione nel sud dell'Egitto, Elio Gallo esplorò l'Arabia Felix, Gaio Petronio si spinse in direzione dell'Etiopia (25-22 a.C.) fino alla sua capitale.

Ad occidente la provincia d'Africa e la Cirenaica conobbero due guerre: fra il 32 e il 20 a.C. contro i Garamanti dell'attuale Libia, mentre fra il 14 a.C. e il 6 d.C. fu la volta dei Nasamoni della Tripolitania, dei Musulami della regione di Theveste, dei Getuli e dei Marmaridi delle coste mediterranee centrali.

I Romani intuirono che il compito di governare e di civilizzare un gran numero di genti contemporaneamente era pressoché impossibile, e che sarebbe risultato più semplice un piano di annessione graduale, lasciando l'organizzazione provvisoria affidata a principi nati e cresciuti nel paese d'origine. Nacque quindi la figura dei re clienti, la cui funzione era quella di promuovere lo sviluppo politico ed economico dei loro regni, favorendone la civilizzazione e l'economia. Augusto, infatti, dopo essersi impadronito per diritto di guerra (belli iure) di numerosi regni, quasi sempre li restituì agli stessi governanti a cui li aveva sottratti oppure li assegnò a principi stranieri. Riuscì anche ad unire all'Impero i re alleati attraverso legami di parentela. Si preoccupò di questi regni come se fossero parte del sistema provinciale imperiale, giungendo ad assegnare a principi troppo giovani o inesperti un consigliere, in attesa che crescessero e maturassero; allevando ed educando i figli di molti re, affinché molti di loro tornassero nei loro territori a governare come alleati del popolo romano. In seguito, quando i regni raggiungevano un livello di sviluppo accettabile, essi potevano essere incorporati come nuove province o parti di esse. Le condizioni di stato vassallo-cliente erano, dunque, di natura transitoria.

Tale disegno politico fu applicato all'Armenia, alla Giudea (fino al 6 d.C.), alla Tracia, alla Mauretania e alla Cappadocia. A questi re clienti fu lasciata piena libertà nell'amministrazione interna, e probabilmente non furono tenuti a pagare tributi regolari, ma dovevano provvedere a fornire truppe alleate al bisogno oltre a concordare preventivamente la loro politica estera con l'imperatore.

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Il problema della successione


«Ma il destino (Fortuna) non gli permise di essere soddisfatto, fiducioso e di avere una progenie e una casa ben disciplinata. Le due Giulie, la figlia e la nipote, colpevoli di ogni atto empio, le esiliò; nello spazio di diciotto mesi perse Gaio e Lucio, il primo in Licia, il secondo a Marsiglia. Adottò allora, nel Foro con la legge curiata, il terzo nipote Agrippa e il figliastro Tiberio; ben presto, a causa della natura infame e feroce di Agrippa, lo rinnegò e lo esiliò a Sorrento.»
(Svetonio,Augustus, 65)

La successione, che toccò alla fine a Tiberio, al termine del suo principato, fu una delle più grandi preoccupazioni della vita di Augusto. Ottaviano, che in gioventù ebbe come fidanzata la figlia di Publio Servilio Vatia Isaurico, ma che sposò nel 42 a.C. la figliastra di Antonio, Clodia Pulcra, una volta riconciliatosi con lui. L'anno successivo (41 a.C.), ripudiò Clodia per sposare prima Scribonia e, poco dopo, si innamorò di Livia Drusilla (appartenente ad una delle più illustri famiglie patrizie romane), moglie di un certo Tiberio Claudio Nerone. Dopo la vittoria di Perugia (40 a.C.), Ottaviano riuscì ad imporre loro il divorzio, mentre Livia era ancora gravida del secondogenito, Druso, e la sposò (fine del 39 a.C.), portando nella sua nuova casa sia la figlia, Giulia, avuta da Scribonia, sia il primogenito di Livia, Tiberio. Svetonio racconta che egli non ebbe nessun figlio da Livia, benché lo desiderasse moltissimo. Lei ebbe una gravidanza, ma il bambino nacque prematuramente.

Per alcuni anni Augusto sperò di avere come erede il nipote Marco Claudio Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, al quale, nel 25 a.C., diede in moglie la figlia, Giulia, suscitando, però, il malumore di Agrippa, che per questo motivo fu allontanato da Roma. Due anni più tardi Marcello moriva (23 a.C.) e Ottaviano fu costretto a richiamare Agrippa, costringendolo a divorziare da Claudia Marcella maggiore (figlia anch'ella della sorella Ottavia), per dargli in moglie la giovanissima Giulia, ormai vedova di Marcello da 2 anni.

Agrippa apparì, così, suo successore designato in caso di morte prematura, facendo ormai parte della famiglia Giulia. Nel 18 a.C., infatti, ad Agrippa fu conferito l'imperium proconsulare maius (come quello di Augusto) per cinque anni, e la tribunicia potestas, per quanto egli non avesse gli stessi poteri di Augusto, né la sua auctoritas.

Nel 20 a.C. Giulia diede al marito un primo figlio, Gaio, e un secondo nel 17 a.C., Lucio, entrambi adottati da Augusto.

In quegli anni, intanto, andavano distinguendosi i due figli di Livia, Tiberio, e Druso, quest'ultimo si dice fosse preferito da Augusto perché figlio naturale del princeps, come suggerisce Svetonio:

«...vi fu anche chi sospettò che Druso fosse figlio adulterino del patrigno, Augusto. Poco dopo venne infatti divulgato un verso: "La gente fortunata riesce ad avere dei figli in tre mesi". [...] Augusto amò immensamente Druso da vivo, tanto da nominarlo sempre coerede insieme ai suoi figli... e da morto lo lodò in pubblico... al punto di pregare gli Dei affinché i due Cesari fossero simili a lui.»
(Svetonio,Claudius, 1)

Con la morte di Agrippa, nel 12 a.C., e poi quella prematura di Druso in Germania nel 9 a.C., la successione sarebbe ricaduta sui due figli di Giulia e di Agrippa, Gaio Cesare e Lucio Cesare, mentre Tiberio, fu costretto da Augusto a separarsi dalla moglie Vipsania Agrippina, per sposare la figlia dell'imperatore, Giulia, vedova di Agrippa. In caso di morte prematura del princeps, Tiberio doveva prenderne il posto fino a quando i giovani Gaio e Lucio non fossero cresciuti.

Questo matrimonio si rivelò infelice e costituì la causa non ultima del volontario esilio di Tiberio a Rodi (dal 6 a.C. al 2 d.C.), tanto più che Augusto vedeva nei due figli adottivi i futuri eredi. Ma la sorte fu favorevole a Tiberio. Giulia, la cui condotta formava argomento di pubblico scandalo, fu allontanata dal padre da Roma (2 a.C.), e pochi anni dopo i due Cesari morivano: Lucio nel 2 d.C. a Marsiglia, mentre si apprestava a raggiungere la Spagna, e Gaio nel 4, per i postumi di una ferita mai guarita, mentre si apprestava a tornare a Roma dall'Oriente. Ad Augusto non restava che Tiberio.

Il 26 giugno del 4 Augusto annunciò la sua decisione: adottava Marco Vipsanio Agrippa Postumo (poco dopo ripudiato e mandato in esilio), l'ultimo figlio ancora in vita di Agrippa e Giulia, e Tiberio Gaio Cesare (a quest'ultimo conferì in seguito la tribunicia potestas). Benché quest'ultimo avesse già un figlio, Druso minore, Augusto lo costrinse ad adottare il nipote prediletto, Germanico Giulio Cesare (figlio del fratello di Tiberio, Druso maggiore, morto in Germania nel 9 a.C., e di Antonia minore, figlia di Ottavia minore e Marco Antonio). Germanico era di un solo anno più vecchio rispetto al figlio di Tiberio, perciò aveva precedenza nella successione. Tiberio diventò così il nuovo imperatore di Roma alla morte di Augusto nel 14, dando origine alla dinastia giulio-claudia.

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Morte e testamento

Secondo quanto racconta Svetonio, vi sarebbero stati, infine, segni evidenti che ne preannunciarono la sua morte e la sua divinizzazione. Mentre stava compiendo la cerimonia della lustratio nel Campo Marzio, davanti al popolo romano, un'aquila gli volò più volte attorno; subito dopo si diresse verso il vicino tempio, sedendosi sulla prima lettera del nome di Agrippa. Visto ciò chiese a Tiberio, suo collega, di pronunciare i voti per la lustratio successiva, poiché non se la sentiva di pronunciare ciò che non poteva mantenere in futuro.

Sempre in questo stesso periodo un fulmine fece cadere dall'iscrizione della sua statua la prima lettera del suo nome; gli venne annunciato che sarebbe vissuto solo cento giorni da questo evento, pari al numero indicato dalla lettera "C", e che sarebbe stato divinizzato poiché «aesar», ovvero quanto rimaneva della parola «Caesar», in lingua etrusca, significa «Dio».

Augusto allora, dopo aver disposto che Tiberio partisse per l'Illiricum, si mise in viaggio per accompagnarlo fino a Benevento. Giunto ad Astura, si imbarcò di notte, per approfittare del vento favorevole, ma cominciò ad avere attacchi di diarrea. Costeggiò, quindi, i lidi della Campania e fece il giro delle isole vicine, fermandosi per quattro giorni a Capri. Qui assistette agli esercizi degli efebi, in virtù di un'antica istituzione. Fece anche servir loro un banchetto in sua presenza, permettendo loro di divertirsi senza freni, saccheggiando i cesti di frutta, di cibo e altre cose che faceva lanciare. Sapendo che era ormai prossimo alla morte, non volle privarsi di alcun divertimento. In seguito passò da Napoli e, sebbene continuasse a soffrire al ventre, seguì il concorso quinquennale di ginnastica istituito in suo onore. Poi accompagnò Tiberio fino al luogo stabilito nei pressi di Benevento. Sulla strada del ritorno la sua malattia si aggravò, tanto da costringerlo a fermarsi a Nola. Qui chiese a Tiberio di tornare indietro, e con lo stesso si trattenne in un lungo colloquio segreto.

L'ultimo giorno della sua vita, chiese uno specchio, si fece sistemare i capelli e, chiamati i suoi amici, chiese loro se avesse ben recitato la commedia della vita, aggiungendo la tradizionale formula conclusiva:

«εὶ δέ τι Ἐπεὶ δὲ πάνυ καλῶς πέπαισται, δότε κρότον Καὶ πάντες ἡμᾶς μετὰ χαρᾶς προπέμψατε.»
«Se la commedia è stata di vostro gradimento, applaudite e tutti insieme manifestate la vostra gioia.»
(Svetonio,Augustus, 99)

Li congedò tutti e improvvisamente spirò tra le braccia di Livia, dicendole:

«Livia, nostri coniugii memor vive, ac vale!»
«Livia, fin che vivi ricordati che siamo stati sposati. Allora addio!»
(Svetonio,Augustus, 99)
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Ebbe una morte dolce, come aveva sempre auspicato. Prima di morire mostrò un solo segno di delirio mentale, quando si lamentò di essere trascinato da quaranta giovani. In effetti fu un presagio, poiché proprio quaranta soldati pretoriani lo portarono sulla piazza pubblica. Morì nella stessa camera in cui spirò il padre, Gaio Ottavio, durante il consolato dei due Sesti, Pompeo e Appuleio, quattordici giorni prima delle calende di settembre (19 agosto del 14), alla nona ora del giorno, all'età di quasi settantasei anni (mancavano trentacinque giorni al suo compleanno).

Il suo corpo venne trasportato da Nola a Bovillae e poi a Roma. Ebbe due orazioni funebri: una di Tiberio davanti al tempio del Divo Giulio, l'altra di Druso, il figlio di Tiberio, dall'alto dei rostri antichi. Subito dopo i senatori lo portarono a spalla fino al Campo Marzio dove venne cremato. Un vecchio pretoriano giurò di aver visto salire al cielo il fantasma di Augusto, subito dopo la sua cremazione. I personaggi più influenti dell'ordine equestre, in tunica, senza cintura, a piedi nudi, deposero i suoi resti nel mausoleo a lui dedicato, fatto costruire tra la via Flaminia e la riva del Tevere durante il suo sesto consolato, avendo poi aperto al pubblico i boschetti e le passeggiate da cui era circondato. In seguito le ceneri dei suoi successori, della dinastia giulio-claudia, vennero qui deposte. Sappiamo però da Svetonio che Augusto vietò, nel suo testamento, che sua figlia Giulia e sua nipote, Giulia anche lei, venissero deposte anch'esse nel suo sepolcro, dopo la loro morte.

Augusto aveva redatto il suo testamento un anno e quattro mesi prima di morire. Lo aveva scritto su due fogli e lo aveva depositato presso le Vergini Vestali, che lo consegnarono unitamente ad altri tre rotoli anch'essi sigillati. Questi documenti furono aperti e letti in Senato. Egli aveva designato come eredi:

  • di primo grado, Tiberio, per la metà più un sesto, la moglie Livia Drusilla per un terzo, e l'obbligo di portare il suo nome;
  • di secondo grado, Druso minore, figlio di Tiberio, per un terzo, Germanico Giulio Cesare e i suoi tre figli maschi per le parti restanti;
  • di terzo grado, alcuni parenti e numerosi amici.

Lasciò poi al popolo romano quaranta milioni di sesterzi, alle tribù tre milioni e mezzo, ai pretoriani mille sesterzi ciascuno, cinquecento a ciascun soldato delle coorti urbane e trecento ai legionari. Ordinò poi che questa somma fosse pagata senza ritardo, avendola tenuta come sua riserva personale. Fece anche altri lasciti, dove alcuni non superavano i ventimila sesterzi. Stabilì che tutte queste cifre fossero pagate entro un anno e dichiarò che i suoi eredi non avrebbero preso più di centocinquanta milioni di sesterzi. Si giustificò infine sul totale del lascito, scrivendo che, sebbene negli ultimi venti anni i testamenti degli amici gli avessero lasciato quattro miliardi di sesterzi, questi erano stati spesi per la maggior parte per il bene della Res publica, insieme ai suoi due patrimoni e le altre eredità.

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Res Gestae Divi Augusti

Augusto stesso lasciò alla sua morte un dettagliato resoconto delle sue opere, una forma di testamento morale: le famose Res Gestae Divi Augusti. Svetonio infatti racconta che una volta morto, lasciò tre rotoli, che contenevano:

  • il primo, le disposizioni riguardanti il suo funerale,
  • il secondo, un riassunto delle opere che aveva compiuto, che chiese fosse inciso su tavole di bronzo da collocare davanti al suo Mausoleo
  • il terzo la situazione dell'Impero romano, da quanti soldati vi erano sotto le armi e dove erano dislocati, quanto denaro vi era nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali, oltre alle imposte pubbliche.

Il testo dell'opera ci è giunto trascritto in un'iscrizione sia in latino che nella traduzione greca, rinvenuta nel 1555. Era incisa sulle pareti del tempio, dedicato a Roma e ad Augusto, situato ad Ancyra (l'odierna Ankara, la capitale della Turchia) e pertanto è stata denominata Monumentum Ancyranum. Secondo il volere di Augusto, il testo era stato inciso originariamente su tavole di bronzo, collocate all'ingresso del suo Mausoleo. Altre copie, molte delle quali sono giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti dei templi a lui dedicati.

In uno stile volutamente stringato e senza concessioni all'abbellimento letterario, Augusto riportava gli onori che gli erano stati via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da lui resi; le elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo Stato, ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni dati a sue spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra.

Il documento non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della sua famiglia, ad eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa, Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio.

Fonte:Wikipedia, l'enciclopedia libera

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